giovedì, Aprile 25, 2024
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Sindrome dei Balcani. Un appello sugli ordigni sganciati nel lago da un F15 americano

«Cercate ancora quelle bombe»

Dove sono finite le bombe sganciate il 16 aprile del ’99 nel lago di Garda da un aereo americano, un F15 Eagle, di ritorno dal Kosovo, in debito di carburante, costretto a mollare gli ordigni nel Benaco per alleggerirsi e raggiungere l’aerobase di Ghedi? È il grande interrogativo che contribuisce a mantenere un alone di mistero su questa vicenda, tornata alla ribalta della cronaca in seguito alla vicenda dell’uranio impoverito. A dar mano forte a chi sollecita chiarezza, come i sindaci della sponda bresciana del Garda, interviene il prefetto Anna Maria Cancellieri, ieri in visita a Puegnago ai comuni della Valtenesi. Il rappresentante dello Stato ha promesso il suo interessamento per sollecitare l’individuazione degli ordigni. Tra San Vigilio, Sirmione, Manerba? Oppure più in là, verso la sponda veronese? «Difficile dirlo – commenta Antonino Chilà, un perito balistico, carabiniere con il grado di maresciallo che ha appena compiuto una perizia commissionata da un privato – anche perchè occorre tener conto di alcune variabili: l’altezza alla quale l’aereo viaggiava al momento dello sganciamento (si ipotizza sui 600 metri), la posizione rispetto alla superficie del lago, il momento del contatto delle bombe con l’acqua, le correnti, la profondità del fondale». Quel giorno l’aereo aveva dovuto ripiegare per l’atterraggio su Ghedi, anzichè Aviano chiuso in seguito a un incidente. La variazione aveva colto l’F15 a corto di carburante, obbligandolo ad alleggerirsi per risparmiare. Le ricerche condotte in seguito con sonar e telecamere non approdarono a nulla. «Anche se ritengo – afferma Chilà – che bisognava ricorrere a tecnologie più sofisticate. Credo pure che sarebbe necessario avvalersi dell’aiuto di un geologo con una buona conoscenza dei fondali del lago». Se le bombe non si trovano significa che sono al «sicuro», e quindi innocue … «Non direi, spero che nei prossimi mesi si proceda invece a ulteriori tentativi di recupero. Mi rifiuto di pensare che possano restare laggiù solo perchè si crede che non siano pericolose. Ne va della serenità e della tranquillità di una zona in cui qualche turista potrebbe essere sempre tentato di mettersi alla ricerca delle bombe». È proprio sulla sicurezza degli ordigni che Chilà nutre qualche preoccupazione. Premesso che dalle documentazioni fornite dagli americani, quegli esplosivi non dovrebbero avere nulla a che spartire con l’uranio impoverito, un altro capitolo è la tipologia delle bombe finite in acqua. A suscitare i timori di Chilà sono tre bombe a grappolo (le «cluster bomb» e altre tre a guida laser), involucri a loro volta pieni di tante piccole bombe (circa 200) della grandezza di una lattina di coca-cola. Funzionano così: l’aereo sgancia la cluster bomb dotata di una carica esplosiva che la fa aprire ad una determinata quota. Le piccole bombe escono e cadono al suolo guidate da un piccolo paracadute, esplodendo al contatto con l’obbiettivo. C’è anche una variante che prevede l’atterraggio senza esplosione trasformando il terreno in zona minata. Chilà ha preso in esame bombe analoghe individuate nei fondali del mar Adriatico, al largo di Chioggia. Bombe scaricate dagli aerei al rientro dal Kosovo che si sono aperte facendo uscire il poco rassicurante contenuto. E uno di questi ordigni, impigliato nella rete di un pescatore, solo per miracolo non ha compiuto una strage. A dire il vero, spiega Chilà, le cluster non avrebbero dovuto aprirsi poichè il pilota provvede al disinnesco al momento di liberarsene. Peccato che non si possa però ecludere il rischio di una rottura del «guscio» al momento della collisione con l’acqua o in seguito all’urto con delle rocce. Chilà lancia un ammonimento: «Se le cluster cadute nel lago di Garda si sono aperte nell’impatto con l’acqua, le bombe all’interno si sono sparpagliate sul fondale. Correnti, spostamenti, urti potrebbero determinare le esplosioni dei singoli ordigni: e siccome nessuno sa dove siano finiti, il rischio per l’incolumità pubblica non va sottovalutato». Un’ultima annotazione. Il Movimento sociale Fiamma tricolore, il cui responsabile della sezione di Desenzano Giovanni Barbi ha commissionato la perizia a Antonino Chilà, ha diffuso un comunicato in cui si «auspica vivamente che la Provincia di Brescia, in sinergia con le province di Trento e Verona, intervenga sulla questione facendosi interprete presso la Stato italiano dei giustificati timori per la salute e la sicurezza delle persone oltre che per mettere i cittadini nella condizione di sapere riguardo la reale volontà di recuperare i pericolosi ordigni esplosivi».

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