sabato, Aprile 20, 2024

Èl Pipaöf

Sembra una storiella, di quelle che in ogni paese, degno del suo essere tale, sono al limite tra verità e racconto da osteria.

Ed è appunto da un’osteria che è venuto fuori dai protagonisti questo racconto: un momento di vita sul quale intessere battute e lazzi, e condire il tutto con un sano bicchiere.

È quello che è successo qui a Desenzano, pochi anni addietro, episodio pieno di spontaneità e di una sua allegra essenza; eccolo.

Carlo “stramasì” che alternava la sua professione principale tra una allegra battuta dialettale, un bianchino, una recita (con reale riscossione di numerosi applausi) nelle commedie della Filodrammatica, era stato chiamato a rifare i materassi, dalla Maria, gentile signora bionda e ottima sarta, che con il marito Severo (Severo di nome e non di fatto), lui sarto di pregio e di elevata clientela, abitava in centro al paese.

La casa aveva un retro con cortile e pollaio, e lì il Carlo stramasì si era messo con due cavalletti e con il Giulio suo settantacinquenne aiutante.

Dalla finestra, il Severo con ago e ditale osservava sia il pollaio che i suoi materassi affidati al Carlo, il quale, intanto, infilzava con i suoi aghi, dei batuffoli morbidi perfettamente allineati.

La Maria, poco prima di pranzo, era scesa con due bicchieri e recapitava il classico fiaschetto del bianco al Carlo e al suo aiuto, poi allungava la mano sulla paglia del vicino pollaio a raccogliere le uova necessarie ad una frittata, li soppesava e con meraviglia esclamava:

-Ma Severo, “chèi öf che, i me par èn puninì disimbrì, pröa a védèr”.

-Ma alà Maria portéi sö che föm na bèla frétada.

-Hòo, ma i tròp lesér chei öf che, senti.

Dalla finestra il Severo, aveva capito tutto, e un fiume di parole non proprio sentimentali, ma sicuramente di circostanza, ha invaso il cortile, il pollaio, il vicinato, intanto che i due materassai Carlo e Giulio, trincavano il bianchino, con falsa noncuranza.

  • L’è la ìcia,…la ìcia! La ìcia, ghet capit Maria ?

-La ìcia? Ma quala ìcia?

La Maria aveva visto, in quel momento, un piccolo forellino in ogni uovo raccolto leggerissimo, proprio il buco da far passare la punta di un ago e abbastanza da succhiare via la chiara e il tuorlo.

Ardèl lè, l’è’l Tacello e Pipaöf ! Pipaöf e can de l’öa, e te, Maria, daga amö de béèr!

E giù un altro fiume di parole appropriate all’evento.

Tacello era un nome di battaglia tra bambini che facevano guerre e “spadate” dietro ai carri ferroviari della Maratona, e Carlo stramasì se l’èra portato dietro da sempre, ma stavolta aveva vinto una battaglia silenziosa, condotta sulla punta di un ago a forare qualche uovo e berselo in compagnia del suo allegro aiutante; del resto la Maria non gli aveva portato il vino? Era una battaglia dell’allegria e dello scherzo riuscito.

Sul fiume di parole ricevute era rimasto il silenzio di un fiaschetto di vino bianco ormai vuoto.

Qualche giorno dopo Tacello Pipaöf, consegnato i materassi riceveva con altre adeguate ed espressive parole, il suo compenso.

Severo e Maria hanno raccontato il fatto un pò a tutti, e per un pò di tempo al Carlo, non veniva dato di lavorare nei pressi di un pollaio, poco male però, perchè il fiaschetto del bianchino non mancava mai.

E non manca ancora oggi il racconto, ancora rivissuto dai protagonisti, che per qualche uovo non serbano rancore, ma semmai ne approfittano per un calicino.

 

tratto da “i quaderni del Rigù”.

Raccolta “a suo tempo” dalla voce dei protagonisti: Carlo Scarpetta, Maria e Severo Mancini, e col ricordo del Giulio Giardini aiutante allora settantacinquenne.

Tacello è un nome di fantasia che il Carlo stramasì si è portato dietro dall’infanzia, da quando i ragazzi e lui con loro, giocavano a “spadate” con dei bastoni accuratamente preparati da loro traendoli da rami di “spirübì”,magari dopo averle raccolte dopo che i conigli frequenti in numerose case, le avevano ben scortecciate.

Tacello era forse il suo nome di battaglia.

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