Quartirolo, ma anche provolone e robiola di Franciacorta vengono prodotti con il latte degli alpeggi. Per riservare invece la preziosa produzione di malga al nostro Monte tipico uno studio propone di istituire il Marchio del Parco
Facciamo i formaggi lombardi
Erbezzo. Che strade prende il latte prodotto nel Parco? Perché non utilizzare il nome del Parco naturale regionale della Lessinia per offrire un prodotto che sia garanzia di genuinità, freschezza e biologicità? Quanti potrebbero imbarcarsi nell’impresa? Se lo è chiesto Elena Marastoni, laureanda in economia e ingegneria agraria all’Università di Bologna. In collaborazione con il Parco ha condotto nell’estate dello scorso anno un’indagine sulle 83 malghe attualmente attive all’interno dei confini dell’area protetta. Il 60 per cento sono nel Comune di Boscochiesanuova, il 24 per cento in quello di Erbezzo, il 7 per cento nel Comune di Selva e in percentuali ancora minori nei rimanenti Comuni montani. Delle 83 malghe, 55 ospitano vacche da latte, 20 manze, due malghe sono «caricate» con pecore e 6 hanno un’altra destinazione: turistica, come abitazioni estive o chiuse del tutto. Le 77 attive servono 91 aziende, ma 62 malghe vedono un’unica azienda coinvolta. In alpeggio si producono oltre 6 milioni di litri di latte, pari a 62mila quintali. Ma quanto di questo latte finisce nei caseifici locali e quanto è destinato all’industria? «Sono destinati ai caseifici di zona 45mila quintali e a quelli industriali altri 16mila. La differenza fra le due tipologie di trasformazione è evidente», spiega Marastoni, «perché i caseifici locali mantengono uno stretto legame con il territorio, le tradizioni e la tecnica di lavorazione tipica dei luoghi, coinvolgono imprese di diverse dimensioni e stringono accordi verbali con i propri associati. I caseifici di tipo industriale perdono facilmente l’identità del prodotto, tendono alla spersonalizzazione, sono poco interessati alle produzioni tipiche, coinvolgono malghe che garantiscono quantitativi minimi di consegna, sono più esigenti sui parametri igienici, distribuiscono incentivi di produzione a fine anno e sottoscrivono contratti regolari». Ma il dato che emerge con stridente evidenza dalla ricerca è il prezzo del latte: 710 lire al chilogrammo è il costo pagato ai produttori dai caseifici locali contro le 724 lire dei caseifici industriali. È la fine del latte della Lessinia inteso come prodotto tipico? Probabilmente sì, se non si interverrà con sistemi di valorizzazione del marchio, perché nessuno lavora a lungo per la gloria. Intanto però dalla ricerca è emerso che il latte degli alti pascoli della Lessinia prende strade diverse: finisce ad Albero (Vicenza), allo stabilimento Parmalat di Verona, al caseificio Cooperativa Sant’Anna o al caseificio Villa di Erbusco (Brescia) dove viene trasformato con i nomi di quartirolo lombardo, provolone, robiola della Franciacorta. Cala l’interesse a «cargar» le malghe con le vacche mentre le malghe vuote vengono via via utilizzate per portarvi le manze. «Le ragioni addotte dagli allevatori sono che le strade per raggiungere le malghe sono disagiate, a volte interrotte anche da tre o quattro cancelli e non è possibile percorrerle quattro volte al giorno per recarvisi per la mungitura. Vicino a casa di solito ci sono stalle tecnicamente all’avanguardia che permettono migliori risultati dal punto di vista della quantità e della qualità del latte e portare la bovina in malga significa spesso compromettere la produzione di latte», spiega la laureanda. Un’analisi impietosa ma realistica della situazione, confermata del resto dai racconti degli allevatori: «In stalla ricavo dai 27 ai 30 kg/latte per vacca al giorno. In malga arrivo a una decina e in più la bovina ha un consistente calo di peso», lamenta un allevatore. «Le malghe per noi sono un reddito o una perdita? Perché non tutto il latte dell’alpeggio diventa formaggio Monte Veronese Dop e va invece a ingrossare le forme di grana padano, magari prodotto a Brescia e che potrebbe benissimo essere ricavato da altro latte?», si chiede lo stesso allevatore che conferma non esservi più nessuno nella sua zona di Sant’Anna d’Alfaedo che porta più le vacche in malga. Marastoni non approfondisce, ma lascia intendere che l’unica strada percorribile è quella della specializzazione verso un prodotto tipico, garantito, difeso da un marchio conosciuto e riconoscibile.