venerdì, Marzo 29, 2024
Da un maiale che pesa 250 chilogrammi se ne ricavano 75 di carne destinata a salami, soppresse e stortine, che oggi si consumano a ciclo continuo ma che una volta si conservavano grazie al grasso ricavato dalla macellazione dell’animale dopo una stagionat

Il salame

Ad accomunare le carni conservate «in onto» sono pochi decisivi fattori. Innanzitutto le coordinate geografiche che indicano nella pianura Padana territori dove in inverno umidità e scarso irraggiamento solare sconsigliano altri tipi di stagionatura. Il deforestamento totale dovuto alla necessità dell’uomo di coltivare la terra, iniziato dai monaci all’alba del millennio, non ha poi incentivato i sistemi di affumicatura tradizionalmente riservati alla montagna dove, tra l’altro, si dispone di essenze adeguate per questo procedimento. Nella pianura lombardo-veneta oche e salami «in onto» vanno legati dall’indispensabile utilizzo di sale necessario per disidratare. L’onto definisce, al pari delle carni impiegate, l’ulteriore macroscopica differenza visto che per le oche si impiega il grasso stesso dell’animale (in Francia i grandi chef non hanno mai smesso di usarlo per friggere) mentre per i salami si usa lo strutto del maiale: cioè il grasso storico delle genti di pianura che, in virtù di un piacere sorprendente, bisognerebbe almeno una volta nella vita usare per friggere. Il clima, quindi. Poi il sale ed il grasso impenetrabile all’ossigeno. Infine la sistemazione finale in un particolare recipiente – la ola di terracotta – che un tempo, dopo essere stata riempita, veniva sigillata con carta grossa trattenuta dallo spago. Questi recipienti – che sino alla metà del Novecento si vendevano a poco prezzo in tutti i negozi di casalinghi e che oggi, a ben altro prezzo, testimoniano in negozi di oggettistica il tradizionale lavoro di qualche artigiano locale – avevano due grosse controindicazioni nell’uso alimentare: duravano poco, perché si sbrecciavano e si incrinavano facilmente, e dopo un paio d’anni d’uso irrancidivano per via del grasso che lentamente veniva assorbito dai pori del manufatto. Anche con un accurato lavaggio non si riusciva mai ad eliminare completamente lo strato irrancidito. Per questo motivo rischiava di mettere a repentaglio la conservazione delle carni dell’anno successivo. Così, dopo la seconda guerra mondiale, nelle famiglie e nei salumifici artigianali le ole vennero soppiantate lentamente e definitivamente dai più igienici vasi in vetro, a imbocco largo per permettere la sistemazione delle salsicce. Con l’avvento della plastica i contenitori divennero quindi secchielli che, muniti di coperchio, assicurano il saporito contenuto dalle scorribande dei topolini di campagna.

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