giovedì, Marzo 28, 2024
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Un maestro (allora bambino) racconta

La sera che Pippo bombardò l’Angelo. Era il 21 aprile del 1945

La contraerea tedesca dell'Uselara di monte Ogheri, mirato il ricognitore inglese a bassa quota nella valle del Mincio, aperse il fuoco; il «de Havilland Mosquito» (meglio noto col nome di «Pippo»), vistosi inseguito dalle traccianti della mitragliera teutonica, passò a volo radente su Valeggio sganciando tre bombe. Un finimondo. Seguirono tre forti esplosioni alla Crosagna di via Italo Balbo. Gli ordigni centrarono: lo stallo dell'Albergo all'Angelo (oggi Angel Bar), la casa di Titari Benaglia, il cortile della signora Luciana Freschini. Vi furono danni e feriti, nessun morto. Erano le 9 di sera del 21 aprile 1945. Il maestro Ernesto Barbieri allora portava i calzoni corti e pochi istanti prima del bombardamento aereo stava disegnando sul tavolo di cucina il diavolo in persona con tanto di corna e barbetta infernale. «Mia madre Ida Gardumo in Barbieri», racconta con vivace freschezza dopo tanti anni, «mi rimproverò dicendomi: «Ghet altro da disegnar?. Non fece in tempo a finire la frase che «Pippo» rumoreggiò a bassa quota sganciando le bombe. D'istinto abbandonai il disegno rifugiandomi nel sottoscala, dove sentii la seconda esplosione che atterrò la casa di Titari – dirimpetto alla mia, che rimase sforacchiata dalle schegge». «Vidi riempirsi il mio cortile di fuochi artificiali di tutti i colori», riprende Barbieri. «Nessuno dei miei era ferito. E neanche il lattoniere Titari, che pur pieno di spavento potè salvarsi sotto la maestà della porta d'ingresso». Una scheggia impazzita colpì al costato un aviere dei «Diavoli Rossi», a quell'ora già in branda nel vicino Palazzo Guarienti (se la caverà comunque) adibito a caserma. Sotto il palazzo stava il rifugio, che Barbieri raggiunse zoppicando in mezzo alle macerie, vetri infranti, e fili della luce attorcigliati per terra. «Mi presentai spaventatissimo al corpo di guardia», racconta ancora Barbieri. «Nel breve percorso avevo perduto uno zoccolo. «Qui c'è un ferito!», disse l'aviere di piantone. «No – lo rassicurai – ò pers en sùpel». Più tardi a casa mia, venne anche il partigiano Antonio Murari, che ci aiutò ad incollare la carta oleata alle finestre rimaste senza vetri, e per rincuorarmi mi disse: «Valà Ernestino, fate coragio che da chi en pò l'è finida!». Povero Toni, era finita per lui invece, perché il 24 aprile nel contrastare un'autoblindo al Verler, venne falciato dalla mitraglia». È una microstoria valeggiana da non dimenticare.

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