venerdì, Aprile 19, 2024
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Domani, 22 ottobre, solenne concelebrazione in santa Maria Assunta per i 25 anni dalla morte del decano benacense. Innovatore e tradizionalista negli anni difficili del Concilio Vaticano II

L’arcivescovo ricorda monsignor Bartoli

Tocca al suo vecchio cappellano Luigi Bressan, poi salito sulla cattedra di Vigilio, presiedere domani alle 18 in santa Maria Assunta il rito solenne per i 25 anni dalla morte di monsignor Giuseppe Bartoli. La presenza dell’arcivescovo unisce peraltro ai motivi privati ed umani dell’affetto per il vecchio pastore, il riconoscimento ufficiale del ruolo che monsignor Bartoli ebbe nella diocesi trentina, come vice rettore e prefetto del liceo del seminario prima, e come decano benacense fino al 1971.Monsignor Bartoli entrò a Riva nel febbraio del ’49 e fu subito aria nuova, per la chiesa e per la collettività. Figlio di contadini di Locca, povera gente, ma intransigente interprete d’una visione «aristocratica» del ruolo del sacerdote, consapevole della necessità di secondare il progresso per sconfiggere una povertà che sconfinava spesso nell’indigenza ma irremovibile nella convinzione che fosse impossibile cedere sui valori (e quelli della religione s’identificavano ancora senza sforzo con quelli della politica), senza troppi mezzi ma fiducioso nella Provvidenza, mise in piedi a fianco della canonica il complesso delle Acli, patronato, mensa con bar e salone, si gettò nella ristrutturazione dell’Oratorio (la prima licenza per gli spettacoli cinematografici era intestata a lui), e costruì a Locca la Colonia Regina Mundi concepita come luogo di vacanza per i figli della povera gente. La vocazione allo svecchiamento lo fece interprete fedele del magistero conciliare: lo scardinamento della liturgia più tradizionale, gli attirò le critiche di chi lo chiamava conservatore perchè non abbastanza sbilanciato verso il sociale (erano gli anni delle crisi sacerdotali e delle tonache svestite) e di chi gli imputava eccessive fughe in avanti. Sono stati anni umanamente difficili, sofferti. Lui restò fermo, e qualche volta solo: aggrappato alle certezze della fede e della Croce che vedeva incarnate nella figura del romano pontefice, erede di Pietro, custode delle chiavi, infallibile interprete della Parola. La predicazione gli è sempre apparsa il luogo privilegiato della pastorale. Coltissimo, lettore infaticabile dei grandi classici (non solo Padri della chiesa, l’Imitazione di Cristo ed i Vangeli: anche Manzoni e Dante) aveva il dono – i più anziani fra i rivani lo ricordano bene – di farsi seguire dalla gente che affollava la chiesa per sentire le sue prediche (e negli ultimi anni, divenuto preposito del capitolo della cattedrale, accadeva lo stesso nel Duomo di Trento). La parola per lui era ripetizione terrena del segno dell’Onnipotente, creazione rinnovabile dall’uomo, imperfetto e grande. Per questo diventa segno d’un destino l’ultima omelia ai rivani, nella festa dei santi Pietro e Paolo del 1971. Era testimonianza, nel giorno del commiato, d’una vita. «Se mi è permesso lasciarvi un ricordo, eccolo: in una sola parola, in un solo nome: Gesù Cristo. E’ l’unico salvatore, non ce ne sono altri». Ma a pronunciare dal pulpito le parole fu don Vito, il successore designato: la commozione gli impedì, a lui grande parlatore, di salutare la sua gente.

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