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Quando la Repubblica di Salò negava le cure ai tedeschi

Brescia 23 Maggio 1944 – XXII dell'era fascista. Dalla Prefettura Repubblicana di Brescia, con la nota in alto di RISERVATA, è inviata a tutti i Podestà e Commissari Prefettizi della Provincia, e per conoscenza al Sindacato provinciale Fascista Medici – Brescia, una circolare che definire incredibile è ancora poco.

L'oggetto: “Divieto ai medici di prestare la loro opera in favore di tedeschi affetti da malattie veneree.” La firma è del Capo della Provincia Prefetto Innocenzo Dugnani, nominato Prefetto e Capo della Provincia di Brescia da Benito Mussolini nel verbale del Consiglio del 18 aprile 1944.

Siamo nel pieno periodo della Repubblica Sociale Italiana, meglio nota con il termine di Repubblica di Salò. Termine assolutamente improprio non essendo mai stata la bella località gardesana ne la capitale ne la sede della Capo dello Stato e del Governo della Repubblica Sociale Italiana. In verità a Salò era ospitato il Ministero della Cultura Popolare e quello degli Esteri. Da Salò partivano i dispacci ufficiali del regime, la cui intestazione era: “Salò comunica…”.

Tornando all'incredibile divieto sopra citato nel documento, resta da chiedersi due cose. In primis le motivazioni per le quali il divieto era rivolto ai soli tedeschi. In verità, la Repubblica Sociale di Salò era stata riconosciuta dal Terzo Reich, dall‘Impero Giapponese e dalla maggioranza degli stati che componevano l'Asse Roma – Berlino – Tokyo e precisamente dalla Slovacchia, l'Ungheria, la Croazia, la Bulgaria e il Manciukuò, quest'ultimo stato fantoccio creato dal Giappone nel 1932 (ora Manciuria e parte della Mongolia interna) e soppresso nel 1945 al termine della seconda guerra mondiale.

Il secondo motivo si rifà al giuramento di Ippocrate, che formulò nel 430 a.C., al quale tutti i medici e odontoiatri devono prestare giuramento. Giuramento del quale tutti, periodicamente, ne sentiamo parlare ma che, in verità, pochissimi cittadini conoscono. Lo proponiamo ai nostri lettori nella versione moderna che, come logico, diverge nella forma ma non nella sostanza da quello di Ippocrate.

“Consapevole dell'importanza e della solennità dell'atto che compio e dell'impegno che assumo, giuro:

di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento;

di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell'uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale;

di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente;

di attenermi alla mia attività ai principi etici della solidarietà umana, contro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze;

di prestare la mia opera con diligenza, perizia, e prudenza secondo scienza e coscienza ed osservando le norme deontologiche che regolano l'esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione;

di affidare la mia reputazione esclusivamente alla mia capacità professionale ed alle mie doti morali;

di evitare, anche al di fuori dell' esercizio professionale, ogni atto e comportamento che possano ledere il prestigio e la dignità della professione;

di rispettare i colleghi anche in caso di contrasto di opinioni;

di curare tutti i miei pazienti con eguale scrupolo e impegno indipendentemente dai sentimenti che essi mi ispirano e prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità condizione sociale e ideologia politica;

di prestare assistenza d' urgenza a qualsiasi infermo che ne abbisogni e di mettermi, in caso di pubblica calamità a disposizione dell'Autorità competente;

di rispettare e facilitare in ogni caso il diritto del malato alla libera scelta del suo medico, tenuto conto che il rapporto tra medico e paziente è fondato sulla fiducia e in ogni caso sul reciproco rispetto;

di osservare il segreto su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell'esercizio della mia professione o in ragione del mio stato;

di astenermi dall'”accanimento” diagnostico e terapeutico”.

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