venerdì, Aprile 19, 2024
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Emma Bini Vincenzi in «Un popolo alla guerra» ha raccolto le testimonianze degli ospiti della casa di riposo di Salò. Anna era la sarta di D’Annunzio, Maria è sopravvissuta alle bombe su Roè

Ricordi di vita diventata Storia

Sono frammenti di vita, raccolti da Emma Bini Vincenzi ascoltando gli ospiti della casa di riposo di Salò. La volontaria del gruppo «Solidarietà salodiana» li ha riordinati in un libro, «Un popolo alla guerra». Nella pagine iniziali si parla del periodo precendente al 1940, anno dell’entrata in guerra dell’Italia. Ida racconta della campagna di Scorzè, in provincia di Venezia. «L’unico alimento che mancava era il pane, che mangiavamo soltanto la domenica e le feste. Mangiavamo la polenta anche a colazione, inzuppandola nel latte, o abbrustolita a fette sulla graticola, col formaggio grana. A 23 anni mi sposai con un salodiano, che faceva il tipografo, e mi trasferii sul Garda. Ho avuto dieci figli, come mia madre. Li ho allattati tutti, anzi, qualcuno di più, come balia». Anna parla di papà, andato a lavorare in Argentina; Luisa dell’impresa di… trasporti della famiglia, proprietaria di due cavalli e di alcune carrozze (i taxi di allora, quando la bici era un lusso), parcheggiate in piazza Vittoria, utilizzate anche per trasferire i defunti al cimitero o un prigioniero dalle carceri locali a Brescia, scortato dai carabinieri. Giulia si sofferma sull’assegno del Duce. «A Mussolini piacevano le famiglie numerose, così a Natale mia mamma gli scriveva, chiedendo aiuto. Arrivava sempre un assegno, da cambiare alla posta. Con quei soldi comperavamo carne (per avere il brodo, e mangiare finalmente una zuppa o la minestrina) o qualcosa di insolito da mettere in tavola, come un cartoccio di strutto di maiale e uno di conserva di pomodoro che, sciolti sul fuoco, consentivano di ottenere un sughetto squisito».Maria: «Sono nata nel ’15 in una frazione di Gargnano, dopo cinque figli maschi. Avevo appena un mese quando la spagnola si portò via la mamma. A causa del lavoro di mio padre, contadino con animali da allevare e bosco da cui ricavare legname, fui costretta a stare in un orfanotrofio in città. Partecipavamo quasi tutti i giorni ai funerali, davanti al corteo, con le nostre divise eleganti: respiravamo un’aria diversa, per noi era una vacanza, anche solo di un’ora».Bruno: «Abitavo a Laste di Rocca Pietore, in provincia di Belluno. Nel ’35 mio padre, autista di autocarri, partì per l’Africa Orientale, per guadagnare di più. A nove anni, per aiutare un mandriano, facevo il guardiano a una settantina di buoi. Poi cominciai a recuperare residuati della guerra ’15-18. Da quel materiale, rivenduto come rottame, si ricavava piombo, rame e ottone». Nel giugno ’40 la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia e alla Gran Bretagna. Cominciò una lunga terribile parentesi. Nel libro Bortolo ricorda il suo calvario: Tripoli, tre anni di Libia, Napoli, Brescia (in convalescenza per una ferita alla gamba), Cosenza, Sicilia. Catturato dagli inglesi il 12 luglio ’43, trascorse un anno di prigionia a Tripoli, poi il trasferimento ad Alessandria d’Egitto, utilizzato come operaio nello smantellamento dei mezzi di trasporto semidistrutti. Quindi in un capannone sul mar Rosso, dove si producevano e riparavano scarpe.Vittorio: «Alla mia classe, il 1913, capitò di combattere in Africa, Spagna, Russia, Albania. Nell’estate ’40 venni richiamato alle armi. Con la tradotta andai in Francia, dove occupammo una parte del territorio vicino al nostro confine. Ci limitammo a issare la bandiera, ben visibile da ogni parte. Più lungo il periodo che passai a Lubiana, capitale della Slovenia. Per fortuna il mio compito in caserma era anche di fare il barbiere, così non partecipavo spesso alle azioni nei punti caldi».Maria: «Per me e per il mio futuro marito la guerra è durata sette anni. Io ne avevo 20, quando nel ’38 lui fu chiamato al servizio di leva, e mandato sulle Alpi, nei posti di confine, prima con l’Austria, poi con la Slovenia. Nel ’40 doveva tornare a casa, invece lo trattennero. Ci scrivevamo, ma la censura divenne sempre più pesante. Così nelle lettere non diceva mai tutta la verità sulla vita militare, e nemmeno sui sentimenti di timore, nostalgia o paura. Bisognava mostrare entusiasmo, e fiducia nella vittoria. Ritornò solo a fine agosto del ’45, dopo una lunga prigionia in Germania. Faceva fatica a raccontare quanto gli era accaduto. Disse che preferiva dimenticare, e guardare al futuro. Ci trovavamo senza niente, più poveri di prima». Anna: «Sono nata nel ’23 a Portese, ora frazione di San Felice, allora comune autonomo. A sei anni entrai in un orfanotrofio di Salò. Dopo le elementari, le suore mi insegnarono a ricamare. Lavoravamo per clienti esterni, quasi sempre famiglie ricche della zona. Spesso ci veniva a trovare Gabriele D’Annunzio: portava ad aggiustare i vestiti delle signore che ospitava».Bianca: «Dopo l’8 settembre ’43 arrivò sul lago il governo della Repubblica sociale italiana, con Benito Mussolini, i ministeri e il personale dipendente, con famiglie al seguito, tutte ospitate negli alberghi. Per i disoccupati, ed erano specialmente le donne, essendo gli uomini lontani (chi al fronte, chi nelle fabbriche di armi o nascosto in montagna), ci furono nuove occasioni di lavoro: cuoche, cameriere, inservienti. Nella scuola elementare di Salò venne allestita una mensa. Gli ospiti erano gentili. Ricordo un avvocato, con moglie e sei figli. Ci siamo visti per quasi due anni, due volte al giorno. Abbiamo familiarizzato».Eleonora: «La fabbrica Olcese di Campione, dove lavoravo, venne chiusa per mancanza di materia prima, che non arrivava più dall’India e dall’Africa. Dopo l’8 settembre i tedeschi che occupavano l’Italia del nord costrinsero la Fiat e la Om a trasferire nelle gallerie della Gardesana, al riparo dei bombardamenti degli alleati, alcuni reparti delle fabbriche. Gli operai furono reclutati tra i soldati sbandati. Dormivano nel cotonificio, in letti a castello, e mangiavano nel convitto delle suore. Noi li servivamo a tavola, e tenevamo puliti i loro vestiti. Alcuni si improvvisarono partigiani, buttando nel lago i pezzi di ricambio che costruivano, in modo da rallentare la produzione».Maria: «Doveva essere la fine del ’44 o l’inizio del ’45. Abitavo a Milano e, dopo avere trascorso qualche giorno a Villa di Salò, dai miei, andai a piedi verso Vobarno, per salutare una sorella. Alla locanda Crocetta di Roè chiesi in prestito una bicicletta per proseguire il viaggio. Sentivamo il rombo degli aerei, e si capiva che avrebbero preso di mira la zona. Le fabbriche producevano armi o pezzi di ricambio: obiettivi da colpire. Nonostante le insistenze della padrona della Crocetta, che mi offrì rifugio nella cantina sotto la casa, inforcai la bici. Appena il tempo di rifugiarmi nella galleria che giunse il fragore delle bombe. Cessato il pericolo, col cuore in gola, ripercorsi la strada in senso contrario. Giunta nel luogo dove doveva esserci la locanda, vidi uno scenario irreale: stanze squarciate, macerie ovunque. Nessuna voce, nessun rumore. Ero inebetita. E pensavo: adesso a chi posso lasciare la bicicletta?».Alla fine il ritorno alla normalità. Pagine vive, di un tempo che sembra lontano.

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