venerdì, Marzo 29, 2024
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Ex commissario ministeriale ai rischi ambientali difende il progetto abbandonato che oggi costerebbe mille milioni di euro. Idea del 1970: tre sbarramenti in Trentino per prevenire alluvioni

Rispolverano le dighe salvalago

Alluvioni, inondazioni e piene sono un rischio reale per tutto il veronese, in particolare per la zona del Garda Baldo e per il capoluogo. Con il mutamento delle condizioni meteorologiche planetarie, Verona potrebbe vivere l’esperienza che Firenze e Trento vissero nel 1966 con le alluvioni provocate da Arno e Adige e che la stessa Verona conobbe nel 1882. «Con le situazioni idrogeologiche attuali, basterebbe che la bassa pressione insistesse su questa zona per 3 o 4 giorni e già gli alvei dei corsi d’acqua non reggerebbero la portata delle acque», ad affermarlo ieri nella sala verde dei Palazzi Scaligeri è stato Gianfranco Dragogna, già docente di sistemazioni idraulico forestali dell’Università di Padova e oggi responsabile tecnico del comitato di difesa dei beni ambientali e architettonici Voce per l’ambiente. A supportare questa ipotesi, Dragogna cita i dati della piena dell’Adige del settembre 2000 e di quella del novembre scorso. Ma un altro problema incombe sul lago: l’apertura nel 1958 dello scolmatore tra l’Adige e il Garda, la galleria Mori-Torbole, «la quale dovrebbe essere aperta solo in casi straordinari», hanno spiegato Andrea Torresani e Roberto Gianfreda, presidente e segretario del comitato ambientale, «rischia di far andare sotto acqua tutta la costa veronese». Il perché è presto detto: «Il bacino dell’Adige va ad intaccare i bacini del Sarca-Mincio che sono scollegati tra loro», ha spiegato Dragogna, dati alla mano. A Salionze le cinque paratie riescono a regolare al massimo un flusso in uscita di 400 metri cubi d’acqua al secondo; la galleria immette qualcosa come 1.500 metri cubi di acqua al secondo. «È un dato di fatto che l’acqua scende verso il basso», hanno detto Gianfreda e Torresani, «le soluzioni di questi problemi stanno a monte di Verona». La proposta avanzata da Voce per l’ambiente rimette sul tavolo politico (sarà trasmesso a Provincia, Regione e Parlamento) un disegno datato 1970, progettato dall’allora commissione interministeriale per i rischi ambientali, che vuole realizzare tre grandi dighe. I redattori del progetto furono Giulio De Marchi docente di idraulica al Politecnico di Milano e Giulio Supino direttore dell’istituto di idraulica di Bologna (entrambi oggi morti); depositario e promotore di quel progetto è il professor Dragogna. Le dighe dovrebbero essere realizzate: la prima sul fiume Rienza a monte di Bressanone, altezza di 120 metri e conterrebbe 78 milioni di metri cubi d’acqua; la seconda a monte di Bolzano alta 85 metri, 14 milioni di metri cubi d’acqua; la terza a nord di Trento alta 130 metri, 49 milioni di metri cubi d’acqua. Costo dell’opera, mille milioni di euro. «Fino ad oggi lo Stato non ha realizzato queste dighe», ha ricordato Dragogna, «e oggi che i bacini sono di competenza provinciale, non esiste un coordinamento tra Provincie che regoli i flussi di acqua, né gli scarichi. Così le Provincie di Trento e Bolzano, quando arriva una piena, scaricano sui nostri territori di tutto, dalle immondizie in discarica ai liquami accumulati che percolano». Ma a chi spetta realizzare queste dighe? «Occorre fare una concertazione tra tutti gli enti, provincie, regioni e stato», risponde Gianfreda, «che si accordino sul da farsi e ripartiscano la spesa».

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