giovedì, Aprile 18, 2024
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Confermate le ipotesi del professor Quaglia. In settembre il via ai restauri. Nella chiesetta emergono affreschi risalenti al Trecento

Sant’Emiliano rivela un tesoro

Quelle che qualcuno aveva definito solo delle ipotesi « un po’ fantasiose e affrettate» si sono invece rivelate dele giuste indicazioni. E oggi sono divenute certezze. Nella chiesetta di Sant’Emiliano, situata sulla collina di Padenghe, vicino al «Passeggero» – un punto dal quale si gode un panorama del Garda forse unico – sono conservati degli affreschi del Trecento. «Affreschi di grande fattura e di grande valore – commenta il professor Gian Carlo Quaglia, uno dei maggiori esperti in restauro conservativo di beni artistici – anche se coperti da tinteggiature d’arte varia e da malta. Vi hanno lavorato delle mani, come dire, delicate». E che siano affreschi meritevoli di essere riportati alla luce, e quindi un giorno (speriamo prestissimo) anche visitabili dal pubblico, lo si intuisce dal fatto che la Soprintendenza ai Beni Artistici e Archittetonici di Brescia, dopo ripetuti e lunghi sopralluoghi del suo esperto Vincenzo Ghiroldi, abbia poi deciso di intervenire direttamente. I lavori, infatti, cominceranno entro la prima quindicina di settembre. Lavori di restauro che, però, si presentano estremamente difficili e irti di insidie. «Già – spiega Quaglia – perchè al contrario di quella che è la prassi ordinaria negli interventi di recupero, quando cioè si comincia con il consolidamento dell’immobile, nel caso di Sant’Emiliano saranno gli affreschi ad essere per primi ritoccati. Questo per il grosso pericolo che incombe sugli affreschi: il pericolo che si distacchino». E, infatti, gli esperti della Soprintendenza con lo stesso Quaglia hanno deciso di collocare dei «salvabordi» perchè si possa procedere alla pulizia. Intanto, dai primi esami compiuti, ci sarebbero almeno due figure femminili, si parla insistentemente di due sante dell’epoca. «Quando verranno alla luce sarà sicuramente una grande sorpresa», aggiunge Quaglia lasciando un pizzico di suspence. Un tempo le offerte votive, per la grande povertà esistente, venivano sostituite con dipinti e affreschi. E chi dipingeva quegli affreschi non erano dei viandanti sprovveduti, ma dei veri artisti provenienti dalle tante botteghe d’arte sparse nel Nord Italia. «In quel periodo – rileva ancora Quaglia – il grande Giotto lavorava a Padova e nel Veneto erano molti i luoghi in cui operavano artisti. La chiesetta di Sant’Emiliano potrebbe, dunque, rappresentare un tesoro d’arte con tante sorprese. Un luogo che, fino a pochi anni fa, era desolatamente abbandonato e che ora, per effetto di quest’eccezionale scoperta, potrebbe diventare un luogo di visita e di incontri culturali di grande spessore. «Si deve a due persone, comunque, se questa chiesetta romanica (come lei anche San Pietro in Mavino di Sirmione, Sant’Andrea di Toscolano Maderno, il tempietto di Lazise) sta per essere restituita al suo antico splendore: Walter Romagnoli e don Luigi Negretto. Il primo, nelle vesti di delegato del Fondo per l’Ambiente Italiano (Fai) perchè ha impresso una svolta decisiva alla riscoperta e valorizzazione della chiesa di Padenghe; il secondo, parroco della cittadina, perchè ha permesso a Quaglia di cominciare a «vedere» le pareti. E, infine, lo stesso Gian Carlo Quaglia che, per primo, aveva visto giusto e fornito il suo responso già tempo fa, pur davanti a qualche scetticismo. Tanta ostinata ricerca alla fine gli ha dato ragione. La chiesa di Sant’Emiliano è databile attorno al XII secolo, ed è, come si diceva, in stile romanico. Nasce, come precisa Quaglia, sopra un insediamento romano. Più tardi, nel ’400, le verrà affiancata una canonica. Essendo una pieve, vi si battezzavano i nati, e fu la prima nella Valtenesi. Nel 1583, rileva ancora l’esperto, avvengono due fatti. Il primo: una fonte d’acqua a cui la gente accedeva perchè ritenuta miracolosa, e «invece era nient’altro che acqua fuoriuscita da una tubazione costruita dai Romani per portare l’acqua dalla zona alta alla pieve». «Il secondo episodio – continua Quaglia – si riferisce a un quadro del pittore Farinatti, che raffigurava Sant’Emiliano, più tardi rubato. Rimasto nascosto per oltre due secoli, riappare sul finire del Settecento e viene portato nella chiesa parrocchiale».

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