Èl Pipaöf

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Sem­bra una sto­riel­la, di quelle che in ogni paese, deg­no del suo essere tale, sono al lim­ite tra ver­ità e rac­con­to da oste­ria.

Ed è appun­to da un’os­te­ria che è venu­to fuori dai pro­tag­o­nisti questo rac­con­to: un momen­to di vita sul quale intessere bat­tute e lazzi, e condire il tut­to con un sano bic­chiere.

È quel­lo che è suc­ces­so qui a Desen­zano, pochi anni addi­etro, episo­dio pieno di spon­taneità e di una sua alle­gra essen­za; ecco­lo.

Car­lo “stra­masì” che alter­na­va la sua pro­fes­sione prin­ci­pale tra una alle­gra bat­tuta dialet­tale, un bianchi­no, una recita (con reale riscos­sione di numerosi applausi) nelle comme­die del­la Filo­dram­mat­i­ca, era sta­to chiam­a­to a rifare i mat­eras­si, dal­la Maria, gen­tile sig­no­ra bion­da e otti­ma sar­ta, che con il mar­i­to Severo (Severo di nome e non di fat­to), lui sar­to di pre­gio e di ele­va­ta clien­tela, abita­va in cen­tro al paese.

La casa ave­va un retro con cor­tile e pol­laio, e lì il Car­lo stra­masì si era mes­so con due cav­al­let­ti e con il Giulio suo set­tanta­c­inquenne aiu­tante.

Dal­la fines­tra, il Severo con ago e ditale osser­va­va sia il pol­laio che i suoi mat­eras­si affi­dati al Car­lo, il quale, intan­to, infilza­va con i suoi aghi, dei batuffoli mor­bi­di per­fet­ta­mente allineati.

La Maria, poco pri­ma di pran­zo, era sce­sa con due bic­chieri e recap­i­ta­va il clas­si­co fiaschet­to del bian­co al Car­lo e al suo aiu­to, poi allun­ga­va la mano sul­la paglia del vici­no pol­laio a rac­cogliere le uova nec­es­sarie ad una frit­ta­ta, li soppe­sa­va e con mer­av­iglia escla­ma­va:

-Ma Severo, “chèi öf che, i me par èn pun­inì dis­im­brì, pröa a védèr”.

-Ma alà Maria portéi sö che föm na bèla fré­ta­da.

-Hòo, ma i tròp lesér chei öf che, sen­ti.

Dal­la fines­tra il Severo, ave­va capi­to tut­to, e un fiume di parole non pro­prio sen­ti­men­tali, ma sicu­ra­mente di cir­costan­za, ha inva­so il cor­tile, il pol­laio, il vic­i­na­to, intan­to che i due mat­eras­sai Car­lo e Giulio, trin­ca­vano il bianchi­no, con fal­sa non­cu­ran­za.

  • L’è la ìcia,…la ìcia! La ìcia, ghet capit Maria ?

-La ìcia? Ma quala ìcia?

La Maria ave­va vis­to, in quel momen­to, un pic­co­lo forelli­no in ogni uovo rac­colto leg­geris­si­mo, pro­prio il buco da far pas­sare la pun­ta di un ago e abbas­tan­za da suc­chiare via la chiara e il tuor­lo.

Ardèl lè, l’è’l Tacel­lo e Pipaöf ! Pipaöf e can de l’öa, e te, Maria, daga amö de béèr!

E giù un altro fiume di parole appro­pri­ate all’even­to.

Tacel­lo era un nome di battaglia tra bam­bi­ni che face­vano guerre e “spa­date” dietro ai car­ri fer­roviari del­la Mara­tona, e Car­lo stra­masì se l’èra por­ta­to dietro da sem­pre, ma sta­vol­ta ave­va vin­to una battaglia silen­ziosa, con­dot­ta sul­la pun­ta di un ago a forare qualche uovo e berse­lo in com­pag­nia del suo alle­gro aiu­tante; del resto la Maria non gli ave­va por­ta­to il ? Era una battaglia del­l’al­le­gria e del­lo scher­zo rius­ci­to.

Sul fiume di parole rice­vute era rimas­to il silen­zio di un fiaschet­to di vino bian­co ormai vuo­to.

Qualche giorno dopo Tacel­lo Pipaöf, con­seg­na­to i mat­eras­si riceve­va con altre adeguate ed espres­sive parole, il suo com­pen­so.

Severo e Maria han­no rac­con­ta­to il fat­to un pò a tut­ti, e per un pò di tem­po al Car­lo, non veni­va dato di lavo­rare nei pres­si di un pol­laio, poco male però, per­chè il fiaschet­to del bianchi­no non man­ca­va mai.

E non man­ca anco­ra oggi il rac­con­to, anco­ra rivis­su­to dai pro­tag­o­nisti, che per qualche uovo non ser­bano ran­core, ma sem­mai ne approf­ittano per un cali­ci­no.

 

trat­to da “i quaderni del Rigù”.

Rac­col­ta “a suo tem­po” dal­la voce dei pro­tag­o­nisti: Car­lo Scar­pet­ta, Maria e Severo Manci­ni, e col ricor­do del Giulio Gia­r­di­ni aiu­tante allo­ra set­tanta­c­inquenne.

Tacel­lo è un nome di fan­ta­sia che il Car­lo stra­masì si è por­ta­to dietro dal­l’in­fanzia, da quan­do i ragazzi e lui con loro, gio­ca­vano a “spa­date” con dei bas­toni accu­rata­mente preparati da loro traen­doli da rami di “spirübì”,magari dopo aver­le rac­colte dopo che i conigli fre­quen­ti in numerose case, le ave­vano ben scortec­ciate.

Tacel­lo era forse il suo nome di battaglia.

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