Il Beppe è il Beppe. A Garda è un’istituzione. Un’icona dello spirito gardesano più schietto, quello che «bastano due soldi in tasca, un bicchier di vino, una canzone, e si è padroni del mondo». «Alla salute dei nostri padri, facciamo un brindisi all’avarizia», intona con il calice alzato, la voce nitida, possente. Beppe Bertamè: se a Garda succede qualcosa che abbia a che vedere con la tradizione, lui c’è. Prima fila. Re Ottone nel carnevale gardesano, banditore a cavallo del palio delle contrade nella calura di ferragosto, Babbo Natale nelle «biganàte» delle feste natalizie, fuochista per il bruièl dell’Epifania. Attivo fra gli alpini, nella schola cantorum della parrocchia, con i donatori di sangue dell’Avis, con i donatori di organi dell’Aido, con il centro culturale Pal del Vo, con la compagnia teatrale. Soprattutto, presidentissimo del coro La Rocca, dal 1973. Del resto, il Beppe è l’unico a essere rimasto in servizio permanente effettivo del gruppo originario che fondò la corale gardesana nel 1956. Oggi, stradino comunale in pensione, è acciaccato da recenti malanni, ma pare pronto a festeggiare le nozze d’oro del suo coro. Calice levato, ovviamente, per scansare le malinconie: «Fin che siam giovani, abbiam da spendere, paghiamo i debiti alla fine de l’àn», chiude il canto del brindisi. Il Beppe è il Beppe, anche quando c’è da fare gli onori di casa a qualche ospite illustre. Lo chiamano se arriva un ministro, un presidente, un re. Come Juan Carlos di Borbone, sovrano felicemente regnante di Spagna, quando venne a provare la barca che gli aveva costruito Gianni Dal Ferro (che del Beppe è poi il cognato). Passarono nottata insieme, il Beppe e il coronato Juan Carlos, bevendo nel Canevî, l’antica grotta-cantina ai piedi della Rocca, quella del «Tòni Slàvo». Subito, l’imbarazzo, di fronte al sovrano iberico. Prima lo chiamò maestà, come il protocollo imponeva, poi passò a un più confidenziale re, infine, quando il ghiaccio era rotto del tutto (e i bicchieri levati più volte), passò a un più diretto Giancarlo, che suona meglio dell’originale spagnolo. Re Juan Carlos, alla fine, si accommiata con l’espressione di saluto della sua gente: «Encantàdo». Lui, Beppe, replica: «Se l’è per quéla, en cantàdo, ma en ànca beùdo». Senza più timori reverenziali. Che dite? Che l’episodio l’abbiamo già accennato un’altra volta? Pazienza: ci piace rinnovarlo. Del resto, il Beppe a Garda è re anche lui. Se ha la statura? Quella morale, certo, ce l’ha tutta. Sull’altro metro, la natura è stata un poco parca. Fa un po’ impressione rivederlo in una foto del 1981 al palazzo dei congressi, accanto a Jacques Piccard, venuto sul lago con il suo batiscafo per indigare sullo stato di salute delle acque. Lo scienziato svizzero è un lungagnone che lo guardi da sotto in su, il Beppe gli arriva ben sotto la spalla. Il Beppe è il Beppe, custode dell’esser «gardesâ», unico o quasi in paese a sapere il vocabolario vero del luogo, a cadenzare l’esatta pronuncia di vocaboli che suonano strani; a custodire, soprattutto, quel patrimonio di canti che andò formandosi nella prima metà del secolo passato. Lui li ha raccolti dai vecchi, nelle serate sulla «diga» o alla taverna. Un monumento, e pazienza se la salute gli ha giocato da poco qualche scherzo. «Fin che siam giovani…»
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«Encantàdo...» gli disse Sua Maestà. «En anca beùdo, Giancarlo»
Il Beppe è il Beppe, anche con Juan Carlos di Spagna
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