venerdì, Marzo 29, 2024
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Un racconto di Marta Sartori

Cuor di Leòn

“Leòn ricordi il giorno che ci siamo incontrati?”

In risposta un uggiolio sommesso. “Ah vecchio mio, erano altri tempi quelli. Un’altra vita. Una famiglia al mio fianco. Sgangherata sì, ma pur sempre una famiglia era. Una bella casa, un lavoro solido, una macchina da sballo, le strepitose feste e i viaggi verso i tropici nei migliori resort”. Alberto si stringe nell’abito sgualcito e carezza il folto pelo dell’unico amico rimastogli al fianco. “Faceva tanto freddo quella sera, tirava un vento gelido e le previsioni atmosferiche non promettevano nulla di buono. Già, Sveva ed io l’indomani dovevamo partire per un week end in un fastosa baita con i coniugi Montini. Ho lasciato l’ufficio prima del solito quel giorno perché pensavo di fare una bella sorpresa alla cara mogliettina. E lì sotto casa mentre mi affretto a cercare le chiavi nelle tasche del cappotto sento un guaito flebile provenire dal cestino dell’immondizia. Mi fermo insospettito e ascolto con più attenzione; non mi ero sbagliato. Mi avvicino e con sconcerto ti vedo là col musino rosa che spunta da un sacchetto di plastica, gli occhi ancora chiusi, il pelo rado. E così hai fatto irruzione nella mia placida vita. Mi tolgo il soprabito per ripararti dal gelo e corro verso la portineria. La portinaia mi viene incontro e osserva stupita il tenero fagottino che tengo tra le braccia. Subito mi porge la copia delle chiavi notando la mia fretta e richiama l’ascensore. Non c’è tempo. Mi precipito su per le scale fino al terzo piano, armeggio con la serratura della porta ed entro chiamando a gran voce la mia Sveva per decidere insieme come aiutarti, nutrirti e riscaldarti ansioso di condividere le mie ansie con lei. La casa è stranamente silenziosa, la luce della stanza da letto in fondo al corridoio è accesa. A passo spedito la raggiungo e…”

Leòn poggia la zampa sulle gambe di Alberto e l’osserva con occhi acquosi e languidi. “Vedo la donna che tanto amavo tra le braccia del mio più caro amico, il Montini. In un istante il mondo mi è crollato addosso”. Alberto afferra la bottiglia di vino scadente e vi si attacca avidamente scolandosi un lungo sorso. Poi col dorso della mano s’asciuga il mento e sospira malinconico. Ora viveva per le strade di Milano con il bel cane pastore dal manto arruffato e sporco. Dopo la sofferta separazione si era lasciato travolgere dal dolore precipitando nel vizioso vortice dell’alcolismo.

I figli più volte gli avevano teso le mani per trascinarlo in salvo ma con l’orgoglio ferito dalla loro scelta di seguire la madre fuori città aveva rifiutato ogni aiuto e s’era abbandonato a quei dolci vapori che gli annebbiavano la mente facendogli dimenticare ogni tristezza. Così anche la sua prestigiosa azienda era andata a rotoli lasciando i poveri dipendenti senza un impiego dall’oggi al domani. I ricchi amici della crème milanese gli avevano voltato le spalle, mentre la lussuosa casa, la costosa automobile con tutti gli altri averi gli erano stati pignorati e messi all’asta in seguito al fallimento; i conti correnti svuotati e bloccati. Non possedeva null’altro che il bel completo di seta blu con la camicia immacolata con i gemelli d’argento ai polsi e le eleganti scarpe di coccodrillo e… Leòn che in quei tremendi giorni era cresciuto al suo fianco giocherellando e mordicchiando le carte mai spulciate di banche e avvocati che Alberto abbandonava stordito e sopraffatto sul lucido parquet di mogano dello studio. Il cagnetto denutrito e fragile si era presto trasformato in un enorme cane dal pelo fulvo lungo e setoso che s’avvicinava al padrone abbandonato sulla poltrona sfiorandone le mani col muso umido per attirarne l’attenzione.

L’uomo spesso risultava confuso o svenuto e allora l’amico fedele s’impegnava per rianimarne i sensi e farlo rinvenire leccandone il viso con forza. Poi paziente s’accucciava ai suoi piedi aspettando che Alberto tornasse vigile. Dal canto suo Alberto nei momenti di lucidità trascorreva tutto il proprio tempo col nobile cane portandolo a passeggiare nello spazioso e verde parco sotto casa fino al giorno in cui al loro ritorno trovarono ad attenderli un inviato dell’Ufficio Giudiziario che affiggeva alla porta un cartello con numero e indirizzo cui rivolgersi nel caso si volesse partecipare all’asta giudiziaria per l’acquisto dell’immobile. Alberto si finse un condomino disinteressato, raggiunse il quarto piano seguito di malavoglia da Leòn, si accoccolò sul pianerottolo delle scale con la testa tra le gambe e pianse in silenzio.

Ora Alberto alza gli occhi al cielo pregando che la notte non sorprenda la città calando il proprio manto nevoso. Sconsolato carezza la grossa testa del suo Leòn e pensa che in fondo è fortunato ad avere quell’angelo peloso al fianco perché sa che ci sarà sempre nel bene e nel male. Leòn non ha mai cambiato l’amore che provava per lui nemmeno quando si sono ritrovati a frugare tra gli scarti sul retro dei ristoranti per placare i crampi allo stomaco e Alberto ricambiava quella lealtà felice di vedere il bel cane scodinzolare alla vista d’un piccolo bottino saporito.

L’inverno ogni giorno era un miracolo sopravvivere alle temperature pungenti, si riparavano nella metropolitana o alla stazione ferroviaria ma la notte erano in balia della sorte. I centri che accoglievano i senzatetto offrendo loro un pasto caldo, un bagno rigenerante e un comodo giaciglio non accettavano animali per questioni di igiene e Alberto non poteva abbandonare il suo inseparabile compagno di vita così preferiva soffrire insieme a lui che mai l’avrebbe lasciato solo. L’estate la vita era più facile, si abbeveravano e si rinfrescavano nei pressi delle fontanelle dei parchi e la notte le stelle tenevano loro compagnia.

“Leòn, vieni qui! Ecco da bravo amico mio, stringiamoci così ci scaldiamo un poco”. Un cartone per coperta e per riscaldare gli animi un grande dolcissimo cuor di Leòn.

Marta Sartori

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