giovedì, Luglio 3, 2025
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I racconti degli anziani. Per il «mondol», bastava un sasso

«Da bambina giocavo così»

I nonni raccontano. Alla casa di riposo di Salò, tra le attività di animazione, condotte con garbo e serenità, c’è la raccolta degli scritti e dei ricordi degli anziani. Nell’ultimo numero del periodico «Noi», Rosa Pasini, nata a Gavardo nel ’28, in una famiglia di contadini, rivede il suo piccolo mondo antico. «Abitavamo nel vicolo dove era situato l’asilo – spiega – e in famiglia tutti mi chiamavano Rosina. Da piccola il mio gioco preferito era il mòndol. Si faceva un disegno per terra che sembrava una griglia, si lanciava un sasso in un riquadro prestabilito, si saltava in ognuno con una gamba sola, cercando di raccogliere il sasso senza cadere». «In casa il cibo non mancava – continua Rosa -. Macinavamo il frumento per avere la farina da vendere al fornaio in piazza, il Portesi, che in cambio ci dava pane per tutto l’anno. Avevamo un po’ di granoturco per la polenta, un grande orto per le verdure e qualche animale: galline, conigli, due mucche, il maiale. Io non bevevo altro latte se non quello della mucca Formenta. Quando si uccideva il maiale si faceva festa grande. Veniva immerso in acqua bollente per togliere le setole. Poi la carne si divideva in base alla qualità. La più bella finiva per essere destinata ai salami, la più scadente ai cotechini. Il procedimento, comunque, era lo stesso. Entrambe venivano macinate per ricavare il pestom, poi si aggiungevano le spezie (sale, pepe, chiodi di garofano). La cotica, ricavata dalla schiena, in parte veniva messa nei cotechini, e in parte utilizzata nel lardo. Si tagliavano poi alcuni pezzi per avere le cotolette. Il frigorifero non esisteva, e conservarle era un problema. Così venivano cotte subito ai ferri. In un mese mangiavamo a lesso le ossa, tenute sotto sale». «Poco distante – aggiunge Rosa – c’era l’asilo gestito dalle suore. Quando avevo un attimo di tempo mi recavo da loro. Mi hanno insegnato a cucire. In famiglia c’erano tre uomini (il papà e due fratelli, Santo e Giuseppe), che avevano bisogno di camicie, pantaloni e, soprattutto, rattoppi. Ricordo che per confezionare una camicia comperavamo tre metri e 20 si stoffa, poco più di quanto serviva. Conservavamo i pezzi per cambiare il collo e i polsini quando erano consumati. La vita di quel capo di abbigliamento veniva così raddoppiata o, addirittura, triplicata». «Una sera, appena finita la guerra -conclude Rosina-, ero coi miei genitori ad ascoltare Santo che suonava nella banda. Un uomo si è messo accanto e mi parlava in continuazione. Lo chiamavano Bepi. Sei anni dopo sarebbe diventato mio marito. Allora c’era una regola: prima dovevano sposarsi i fratelli più vecchi, così io ho dovuto attendere». Storie semplici, che vengono raccolte con pazienza. «Non smetteva più di parlare -affermano Monica e Paola, le due animatrici che si dedicano alla ricerca -. In quel pomeriggio d’autunno, sotto la memoria di un sole sfumato verso il tramonto, la sua voce disegnava paesaggi nell’aria. Quasi pareva di vedere tutte quelle persone di un tempo lontano, eteree compagne dei suoi passi presenti. Affascinate, ascoltavamo narrare episodi ed eventi, lo sguardo increspato dalla malinconia di emozioni di una vita. Per noi, l’occasione nuova di assaporare esperienze nemmeno immaginate».

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