mercoledì, Luglio 2, 2025
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Oggi e domani la seconda parte del convegno sulla fine del Duce, intanto arriva un nuovo libro ricco di retroscena. Le memorie del figlio Romano: «Noi, famiglia in affitto a Villa Feltrinelli». «Distrussi io buona parte del carteggio Churchill» La strana

Mussolini, ultimo atto sul Garda

Dopo le giornate di Salò del 20 e 21 maggio, si svolgerà a Dongo, oggi e domani, la seconda parte del convegno «Da Salò a Dongo. Il dramma e l’enigma», organizzato della Fondazione Istituto Studi Storici Europei. Tema delle due nuove giornate sarà: «La fine di un uomo: gli ultimi giorni di Mussolini». Interverranno docenti, studiosi e testimoni, fra i quali Luciano Garibaldi, Fabio Andriola e Giuseppe Parlato che rispettivamente presiederanno le tre sessioni dei lavori. ***Romano Mussolini, con il libro edito da Rizzoli, fresco di stampa, «Ultimo atto. Le verità nascoste sulla fine del Duce» (178 pagine, 15 euro), anticipa, in certo qual modo, i temi che saranno dibattuti a Dongo. Le pagine scritte dal figlio del Duce – più che testimone degli eventi – si possono leggere percorrendo il filo di almeno tre temi: 1) il carteggio Churchill, di cui «Bresciaoggi» si è ampiamente occupato nell’edizione del 23 settembre dello scorso anno; 2) l’oro di Dongo, di cui «Bresciaoggi» il 7 agosto 2004 riferì la testimonianza raccolta da Aga Hruska; 3) gli ultimi giorni della famiglia Mussolini sul Garda, a Villa Feltrinelli di Gargnano. IL CARTEGGIOCHURCHILLRomano Mussolini scrive parole che si possono considerare definitive sul carteggio Mussolini – Churchill. A più riprese, e in più pagine, racconta della sorte delle famose lettere che preoccuparono lo stesso statista inglese, e la cui ricerca impegnò servizi segreti, giornalisti e storici. Sulle famose borse di cuoio contenenti i documenti, Romano informa di aver avuto la possibilità, col tempo, «di raccogliere in proposito informazioni di prima mano. Ho anche qualche ricordo personale perché per uno strano scherzo del destino, toccò proprio a me distruggere una parte di quella documentazione». Le lettere erano per Churchill «una grossa spina nel cuore». E voleva recuperarle perché «tutte imbevute di ammirazione e di attestati di amicizia» nei confronti del Duce. Tale incartamento – scrive ancora Romano Mussolini – «del quale da sessant’anni viene di tanto in tanto annunciata la ricomparsa, posso dire che questa è del tutto improbabile: infatti io stesso bruciai buona parte di quell’epistolario. Era rimasto nelle nostre mani dopo la precipitosa partenza di mio padre (da Gargnano), e fu proprio lui a raccomandarmi di far sparire tutto quanto avrebbe potuto risultare compromettente per noi nel momento in cui (come poi avvenne) gli Alleati ci avessero presi. Non so, onestamente, se le lettere che gettai nel fuoco fossero le più importanti, né ricordo con esattezza quante ne distrussi». E così conclude: «So però che il carteggio Churchill cessò di esistere, quanto meno nella sua interezza, nell’aprile 1945». Che cosa contenevano, allora le due borse di documenti che Mussolini portò con sé uscendo dalla Prefettura di Milano per il suo ultimo drammatico viaggio? Romano scrive che, secondo sue informazioni, suo padre «aveva con sé una serie di lettere di Hitler, che dimostravano in modo inequivocabile come la decisione di entrare in guerra fosse stata subita dal governo fascista. C’erano poi le missive di Vittorio Emanuele III e di Badoglio e un verbale con il resoconto stenografico della seduta durante la quale, il 29 maggio 1940, fu deciso l’intervento dell’Italia nel conflitto. Mancavano, invece, uno in parte e l’altro del tutto, due dossier di grandissima importanza: il carteggio del Duce con Churchill (molte lettere vennero appunto bruciate dallo stesso Romano) e un dettagliato rapporto sulla figura e le abitudini private del principe ereditario Umberto di Savoia». Nelle due borse che il Duce affidò all’attendente Pietro Carradori vi erano anche cinque milioni di lire: «i diritti d’autore che pochi giorni prima mio padre aveva ricevuto per i suoi libri», informa ancora Romano. Mussolini considerava di estrema importanza le carte che portava con sé. Lo confidò a Claretta Petacci a Musso, presso il lago di Como, poco prima che la colonna fosse intercettata dai partigiani. Quando «gli Alleati lo avessero catturato – annota Romano -, lui avrebbe potuto discolparsi e dimostrare la sua buona fede. E a lei disse: “È meglio che una delle due borse la custodisca tu, non si può mai sapere”». Ma quando Mussolini venne fermato a Dongo dai partigiani della 52° brigata Garibaldi, una delle due borse «era già sparita». Nel momento in cui fu riconosciuto, scrive sempre Romano, «il Duce aveva sulla testa la bustina dell’esercito italiano e portava con sé la borsa superstite gonfia di documenti. Al suo interno si trovava tra l’altro la copia della lettera che il 24 aprile 1945 aveva scritto al primo ministro inglese Winston Churchill». Nel messaggio allo statista inglese – integralmente riprodotta nel libro appena edito da Rizzoli – Mussolini lamentava di essere stato all’oscuro delle trattative «in corso tra Gran Bretagna e Stati Uniti con la Germania» e augurava successo all’iniziativa. Ricordava poi a Churchill l’importanza strategica dell’Italia e che anche per questo non poteva «essere sacrificata». Quanto alla propria posizione davanti alla storia, gli scriveva: «Forse siete il solo, oggi, a sapere che io non debba temerne il giudizio. Non chiedo quindi che mi venga usata clemenza, ma riconosciuta giustizia, e la facoltà di giustificarmi e difendermi». Infine invocava l’invio di un fiduciario inglese: «Vi interesseranno le documentazioni di cui potrò fornirlo, di fronte alle necessità d’imporsi al pericolo dell’Oriente. Molta parte dell’avvenire è nelle vostre mani; e che Iddio ci assista». A Dongo, durante l’interrogatorio, venne sequestrata a Mussolini la borsa con i documenti che aveva ancora con sé; l’altra l’aveva appunto affidata a Claretta «che però al momento dell’arresto non l’aveva più». Le era stata sequestrata a Menaggio «per essere poi consegnata a un membro comunista del Comitato di Liberazione». Un tentativo di recupero dei documenti venne fatto anche dall’ambasciatore inglese a Berna, sir Norton, che raggiunse Villa di Chiavenna sul confine con la Svizzera. «Verosimilmente l’ambasciatore agiva su disposizione di Churchill, desideroso di entrare in possesso del carteggio custodito dal Duce. Carteggio che in realtà, come io ben sapevo, solo in parte si trovava nelle mani del prigioniero. Il piano degli inglesi andò in fumo quando alla cascina dei De Maria arrivò, evidentemente avvertito di ciò che si stava preparando, l’agitatissimo Valerio», il colonnello Valerio, ovvero il ragionier Walter Audisio, che sparò gli ultimi colpi sul corpo di Mussolini (ma la vicenda non è chiara) e di Claretta davanti a Villa Belvedere di Giulino di Mezzegra alle «quattro e dieci del 28 aprile 1945». Romano Mussolini fa cenno anche dell’arrivo di Churchill a Gardone Riviera alla fine del luglio 1949 nel tentativo di recuperare quel carteggio compromettente con Mussolini che pensava si potesse ancora trovare in qualche villa abitata dal Duce durante la Repubblica di Salò. Ma tale carteggio, come precisato da Romano, era stato da tempo in buona parte distrutto e il rimanente era stato sequestrato al Duce a Dongo e finito in mani ancora sconosciute. L’ORODI DONGORomano Mussolini conferma nel libro appena edito da Rizzoli il “sequestro” di buona parte del cosiddetto oro di Dongo da parte dei partigiani, come raccontato anche dal dentista di Gardone Riviera, Aga Hruska, figlio del più celebre Arturo – il fondatore del giardino botanico – e pubblicato da «Bresciaoggi» il 7 agosto 2004. Romano racconta, infatti, che all’alba del 26 aprile 1943, prima di muovere da Como per la Valtellina, il Duce venne informato che il «furgoncino Balilla che faceva parte della colonna partita da Milano si era fermato nella località Garbagnate» a causa di un guasto. Il prefetto Gatti fu incaricato di recarsi a Garbagnate alla ricerca dell’automezzo la cui sparizione preoccupò molto Mussolini. Ma del furgoncino Balilla non si trovò più traccia: sparito! Secondo un contabile del ministero delle Finanze della Rsi – informa Romano Mussolini – sull’automezzo vi era «un grosso quantitativo di valuta italiana (nell’ordine di centinaia di milioni di lire dell’epoca) e di valuta estera: per l’esattezza 2.675 sterline in banconote, 2.150 sterline oro, 149.000 dollari, 278.000 franchi svizzeri, 18 milioni di franchi francesi. Sul furgoncino, inoltre, erano stati caricati lingotti d’oro provenienti dalla Banca d’Italia», di cui lo stesso Romano scrive di non essere mai riuscito a scoprirne la quantità. Il figlio del Duce afferma di aver sempre creduto alla storia che il furgoncino si fosse fermato a Garbagnate per un guasto. Tuttavia, scrive ancora, secondo «nuove informazioni che considero attendibili, ora sono convinto che la verità sia questa: non un guasto, bensì la precisa volontà dei due passeggeri fermò il Balilla». Un vero e proprio colpo di mano, quindi, ideato prima della partenza della colonna da Milano. Va detto che il furgoncino non trasportava tutto il “tesoro”, assai più consistente e in larga parte caricato sui camion che formavano la colonna. Ma quando i mezzi giunsero a Musso «si era molto ridotto: parte della valuta era scomparsa e ciò che rimaneva fu sequestrato dai partigiani e portato nel municipio di Dongo, dove si assottigliò ulteriormente». Nel 1949 venne aperto a Milano un processo contro 51 persone chiamate a rispondere dell’accusa «di sottrazione di beni», vale a dire del “tesoro”. Il processo si prolungò per anni e avrebbe dovuto riprendere nell’aprile del 1957 presso la Corte d’Assise di Padova. Ma prima della ripresa tutti i 51 imputati furono amnistiati e la «pratica del “tesoro” di Dongo archiviata». Parte del bottino, finì nelle mani dei partigiani comunisti, come Aga Hruska raccontò alle pagine 222–224 dell’autobiografia Memorie segrete del dentista di papi e di re pubblicata un anno prima di morire, nel 2002 da Bietti. GLI ULTIMI GIORNI A GARGNANORomano Mussolini ricorda che quando il Duce morì, lui si avviava verso i 18 anni. Tra padre e figlio «negli ultimi tempi, a Gargnano sul lago di Garda dove la Repubblica Sociale Italiana aveva il suo quartier generale, tra noi si era stabilito un rapporto di grande confidenza. E proprio a Gargnano, in quella perpetua ansietà provocata dalle notizie che giungevano dai fronti di guerra, ho assistito all’ultimo atto della vita di mio padre. Ho raccolto insieme a donna Rachele i suoi sfoghi al ritorno dagli incontri con Hitler e ho vissuto i giorni strazianti della fucilazione di Ciano con mia sorella Edda che sembrava impazzita dal dolore. L’ho visto, il 17 aprile 1945, avviarsi incontro al suo destino da Villa Feltrinelli, dove la nostra famiglia alloggiava». Romano Mussolini – ben noto musicista di professione – afferma di ricostruire nel libro l’ultimo atto della vita del padre. Ma come nel celebre film di Akiro Kurosawa, Rashomon, ogni testimone «fornisce una versione diversa di ciò che è accaduto» per cui anche la verità sulla morte del Duce presenta ancora più aspetti che nemmeno il tempo è riuscito a chiarire. Tra le affermazioni di grande rilievo, e che modificano un punto cardine della Rsi, vi è quella che non fu Hitler a obbligare il Duce a dar vita alla cosiddetta Repubblica di Salò: «È stato spesso affermato che fu Hitler a imporre a mio padre di fondare la Rsi. Posso dire che non è vero. Il Duce, superati momentaneamente i traumi della destituzione e della prigionia, aveva saputo riannodare i fili del sogno» e alla Rocca delle Carminate si dedicò al progetto con grande impegno, lavorando fino all’alba «per annotare appunti e scrivere lettere. Spesso appariva soddisfatto e desideroso di ricominciare in uno slancio di vitalità che scacciava la rassegnazione». Durante le passeggiate in bicicletta nel parco di Villa Feltrinelli, il Duce si aprì con il figlio ad alcune confidenze. Ad esempio gli disse che i tedeschi volevano sistemare a Salò i suoi collaboratori «in una fila di vagoni letto fermi nella stazione ferroviaria». Su tali vagoni avrebbero dovuto lavorare e vivere. Ipotesi inaccettabile. La madre mise al corrente Romano che per abitare Villa Feltrinelli pagavano un canone mensile di ottomila lire. L’edificio «era signorile e sorgeva a poca distanza dal lago, dal quale lo separava un uliveto. La facciata era decorata con marmi rosa e l’aspetto generale era davvero suggestivo. Una volta entrati nella villa, però, la musica cambiava: le stanze erano molto trascurate e il mobilio in parte danneggiato». Fu la madre, unitamente alla servitù, a rimettere tutto in ordine. «Aveva disposto un minuzioso piano di pulizie e riorganizzato le cucine, dove ogni giorno trascorreva almeno due ore con i capelli raccolti in un fazzoletto e i fianchi cinti da un grembiule». In breve tempo Villa Feltrinelli «fu lucidata a specchio». Romano ricorda, a questo punto, il concerto jazz tenuto qualche tempo fa a Gargnano, a poca distanza da Villa Feltrinelli, trasformata in albergo di lusso e confessa le proprie emozioni: «Le sensazioni che ho provato visitando l’edificio sono inesprimibili. Mi sono anche seduto al pianoforte nel grande salone oggi scintillante di marmi e adorno di tende di velluto. Com’era diverso da quello che avevo conosciuto! Mi trasmetteva una sorta di brivido. Perché pensate: di tutti i miei familiari che hanno abitato Villa Feltrinelli al tempo della caduta del fascismo, solo io sono ancora vivo. Solo nei miei occhi rivive tutto quel mondo di persone, di avvenimenti e di affetti che oggi nessuno può immaginare arrivando a Gargnano».

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