venerdì, Aprile 19, 2024
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Memorie. Si andava a remi e ci si fidava soltanto delle braccia capaci di fiocinare anguille e carpe. Vaifro Bazzoli rievoca antagonismo con San Benedetto e segreti degli esperti Filippo Galetti fu provetto carpentiere, il figlio avrebbe costruito barche

Noi pescatori gli ultimi poeti del lago

Le due figure ritmano, come in una danza, il gesto forte e sicuro di una remata che fa scivolare via l’esile sagoma dell’imbarcazione; l’acqua disegna una riga continua sotto la spinta silenziosa della pala. Chiunque si affacci sul Garda dallo specchio del Mincio, può vedere, nella luce del tramonto, coppie di vogatori percorrere i canali che sottolineano la cinta muraria della Fortezza. Sono lì in ogni stagione dell’anno, per passione e, da oltre un decennio, per prepararsi all’appuntamento con il Palio delle Mura. Il loro è un gesto antico, come quello fatto da chi affrontava tutti i giorni il lago con la stessa vogata, ma nella speranza di ritornare carico di buon pesce. «Sarà che, allora, non c’erano molte altre risorse, ma pescare e remare erano al centro della nostra vita», ricorda Vaifro Bazzoli, uno dei pescatori storici di Peschiera, con parole ancora piene dell’amore e dell’entusiasmo per una vita spesa sull’acqua. «E che rivalità», continua, «tra i pescatori di Peschiera e quelli di San Benedetto: non si perdeva occasione per affrontarci a suon di remi. Noi di San Benedetto avevamo barche e reti più grandi, perché uscire in acqua voleva dire fronteggiare da subito il lago; a Peschiera, invece, utilizzavano scafi più leggeri, idonei ai canali della Fortezza e alla pesca delle anguille: i più capaci riuscivano a centrarle con una fiocina anche a dieci metri di distanza». Una rivalità che scompariva, però, «nel giorno del “restel”: allora si remava tutti insieme per spingere i volatili verso il porto», racconta Bazzoli, «dove li attendevano i signorotti arrivati dalle città per cacciare». Alla pesca si veniva avviati sin da piccoli, per aiutare la famiglia. «Ci affiancavano a chi aveva già esperienza; occorreva imparare da loro tutti i trucchi e i segreti del lago, dei suoi fondali e dell’arte del pescare. Quanti “tasi e rema” prima di diventare capaci di arrangiarci da soli». I compagni di scafo sono sempre stati uniti da una complicità particolare, resa ancora più forte dal fatto che quelle quattro braccia erano l’unico motore di cui entrambi disponevano per far ritorno a casa. D’estate venivano coinvolte anche le donne: il loro contributo consisteva nello spingere chiassosamente il pesce nella rete. Le imbarcazioni: sono in tanti a ricordare Filippo Galetti, carpentiere molto bravo a costruire barche per la società Navigazione laghi; anche la sua è stata una professione tramandata in famiglia: il figlio Italo ha costruito barche a vela, tra l’altro, per competizioni sportive e anche per l’Aga Khan e dopo di lui il figlio Carlo ha continuato sui passi del padre e del nonno. Nonno Filippo, terminato il lavoro, alla sera in un piccolo locale aggiustava e sistemava le barche dei pescatori. «Se no ghe giusto le barche, no i magna», soleva dire a casa per spiegare il perché di un lavoro di grande soddisfazione ma senza remunerazione. «Il fatto è che, in qualunque stagione, le ore in barca non si contavano», riprende Bazzoli, «e si remava di filato, pensando solo a raggiungere il punto stabilito. Una volta là non si pensava ad altro che al sole: per non farlo andar giù, lo avresti tenuto su anche con il remo, in modo da poterti fermare lì ancora un po’», sospira Bazzoli, parlando di un lago completamente trasformato dal progresso «al punto, però, di esserne stravolto: i motori fanno fare meno fatica, ma l’unico pesce che ora si trova nel Garda è quello per così dire coltivato; ed è tutt’altra cosa». Bazzoli non è il solo ad avere questa convinzione. «Sarebbe anche quella di mio padre», dice Mario Butturini, figlio di Silvio, pescatore e poi primo piscicoltore del paese, alle piscicoltura dei Sette Ponti, dipendenza del ministero delle Foreste. «Ricordo il canale di Mezzo, in pieno centro storico, pieno di trote; veniva fatta la spremitura delle uova a mano: si teneva la testa del pesce con uno straccio, in modo da non fargli male, perché poi veniva rigettato in acqua. Si spremevano le uova dalla femmina e dalla pinna caudale del maschio il cosiddetto latte; si mescolava con una piuma di gallina, per non rischiare di rompere le uova, e il tutto veniva deposto negli zu». «Gli zu», spiega Mario Butturini, «erano recipienti formati da bottiglioni di vetro rovesciati e messi a bocca in giù dentro a una bacinella quadrata con al centro un buco; l’acqua saliva e scendeva dal bottiglione creando un circuito che manteneva ossigenato l’interno e impediva che le uova si attaccassero. Decisamente altri sistemi rispetto a oggi, ma non per questo meno efficaci, anzi». Vita da piscicoltore e da pescatore per Silvio Butturini, pescatore come lo era suo padre Battista. «Ma la gente di Peschiera si ricorda più di mio padre; sia perché la generazione di mio nonno è troppo lontana, sia perché Silvio, detto Nèmece, era famoso per la pesca con la fiocina: dal ponte San Giovanni o dalle mura del Bastione della Madonnina, qui in centro, prendeva le carpe come pochi». Il soprannome Nèmece veniva dalla somiglianza con un personaggio di monello in voga nel cinema muto di quegli anni; e Silvio Butturini era un protagonista delle stagioni della Peschiera e del suo «Entramarzo». «Entra marzo su questa tera, volemo darghe ’na bela butela, ci ela e ci no ela, l’è?» La filastrocca veniva urlata la prima notte di marzo dai pescatori, dall’alto del ponte dei Voltoni e dai Bastioni del centro storico. «Venivano create di fantasia le coppie più strane», dice Enza Lonardi, «quelle che in realtà non avrebbero mai potuto mettersi insieme; io lo ricordo ancora l’Entramarzo dei pescatori, un’usanza scomparsa del tutto solo tra gli anni Sessanta e Settanta, quando una di queste coppie improbabili finì con il denunciare gli autori del loro connubio. Una tradizione che oggi sarebbe impossibile riproporre perché non ci si conosce più come una volta». I pescatori venivano chiamati anche piassaroti perché, finita la notte di lavoro in barca, si concedevano ore di pausa girando per il paese. «Vedendoli sempre in giro di giorno, molta gente pensava che non facessero niente», rammenta Mario Butturini, «ma in realtà loro avevano faticato sino alle prime luci del mattino. Per il fatto di essere in giro, però, sono anche serviti alla comunità: più di una volta, infatti, si sono lanciati in acqua per salvare gente caduta nel lago o rovesciatasi con le barche». Tempi destinati ormai solo al ricordo. «Ma non la tradizione della pesca; chi come me l’ha vissuta sin da piccolo», conclude Butturini, «non la può dimenticare e, a sua volta, cerca di tramandarla a figli e nipoti».

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