Tra la primavera e l’estate del 1849, il sole della libertà e dell’indipendenza sorto ad illuminare l’Italia sembrava essere definitivamente tramontato. La disfatta delle truppe piemontesi a Novara, il 23 marzo, la caduta della Repubblica Romana il 3 luglio e la resa di Venezia, piegata dopo un durissimo assedio il 28 agosto, segnavano il mesto concludersi dell’epica stagione di risveglio nazionale inaugurata dalle insurrezioni del 1848. Gli eventi che nell’arco di dodici anni condussero da queste sconfitte alla nascita dello Stato unitario maturarono attraverso un complesso e talora conflittuale interagire di forze, ideali, interessi e individualità. Un interagire i cui principali soggetti politici sono in estrema sintesi rappresentati dalla “Realpolitik” del Piemonte di Cavour, dagli ideali della compagine democratica facente capo a Mazzini e Garibaldi, dai progetti egemonici di Napoleone III.Mentre tutti gli Stati italiani avevano rinnegato le riforme del ’48 trincerandosi dietro ad una sterile restaurazione che li avrebbe cancellati dalla storia, il Piemonte, unico ad aver mantenuto il nuovo regime costituzionale-parlamentare sancito dallo Statuto, aveva da subito intrapreso un percorso di modernizzazione istituzionale ed economica contando, salvo brevi parentesi, sulla guida sicura del conte di Cavour. La politica estera dello statista andò gradualmente definendosi intorno all’obiettivo di espandere il regno sabaudo scacciando gli austriaci dal nord Italia per poi dar vita ad una federazione insieme agli altri Stati italiani. Quando a metà degli anni ’50, dopo la partecipazione alla guerra di Crimea, il Piemonte riuscì ad entrare nel consesso delle potenze europee, il progetto di Cavour acquisì una nuova prospettiva e si incentrò sul rendere sempre più tangibile l’opportunità di realizzarsi contando sulla forza militare della Francia e facendo leva sulle sue mire espansionistiche. Nel frattempo, il movimento democratico continuava a tener viva la fiamma ideale di tutti quegli italiani, nobili, borghesi e popolani che rifiutavano di vedersi ridotti a mera “espressione geografica”. All’atto pratico tuttavia, questa azione rivelava giorno dopo giorno il fallimento dei tentativi eroici quanto velleitari (Dottesio e Sciesa nel 1851, i martiri di Belfiore tra il ’52 e il ’55, Pisacane nel 1857) di organizzare un moto insurrezionale in grado di scalzare il dominio esercitato più o meno indirettamente dagli Asburgo sulla penisola.Fu così che molti patrioti, Garibaldi in primis, ruppero con il dogmatismo di Mazzini così come con quello di quanti contavano che l’Italia potesse ancora “fare da sé” e subordinarono gli ideali repubblicani alla priorità di conseguire l’unità nazionale, mostrandosi pronti a combattere anche sotto le bandiere del regno sabaudo per spingerlo, se possibile, ad un impegno che coinvolgesse in un processo unificatore tutti gli italiani. Il disegno di Napoleone III invece, era molto semplicemente quello di espandere verso l’Italia la sfera d’influenza francese sostituendosi all’Austria nell’egemonia sugli Stati che, stando ai piani di Cavour, avrebbero dovuto federarsi al Piemonte; e per far questo, l’erede del bonapartismo era disposto a sfidare l’opposizione interna di quanti temevano per i costi incontrollabili di una guerra, per il fatto che l’indebolimento dell’Austria avrebbe potuto agevolare l’unificazione della Germania e per le conseguenze negative che il risveglio nazionale italiano avrebbe potuto avere sul potere temporale del papato. Preparata dagli accordi di Plombières, la guerra iniziata il 27 aprile 1859 rappresenta il punto in cui tutte le linee di forza fin qui descritte si vennero ad intersecare per poi irradiarsi verso direzioni assai lontane dalle attese di chi le aveva generate.Paradossalmente infatti, il successo arriso alle armi franco-piemontesi e culminato nella vittoriosa giornata di Solferino e San Martino il 24 giugno 1859, scavalcò o infranse i disegni di Cavour e Napoleone III e, pur a prezzo di un vistoso compromesso istituzionale, venne altrettanto paradossalmente a coronare le aspirazioni del soggetto meno forte dal punto di vista militare e diplomatico, i democratici. L’imprevedibile piega assunta dagli eventi si materializzò, fin dai primi giorni del conflitto, nelle insurrezioni scoppiate nel granducato di Toscana come nei ducati e nelle legazioni di Massa, Carrara, Parma, Modena, Bologna, Ravenna, Forlì, insurrezioni seguite dai plebisciti con i quali queste terre manifestarono la loro volontà di entrare a far parte del regno sabaudo. Di fronte a questa escalation, Napoleone III, già logorato dall’opposizione interna, prese atto del fatto che se la guerra fosse continuata non si sarebbe andati verso l’egemonia francese in Italia, ma verso la nascita di uno Stato unitario italiano. Ed è per questo che pochi giorni dopo aver inferto un colpo decisivo alle armate austriache sui colli di Solferino, l’imperatore, senza neppure avvertire i piemontesi, firmò a Villafranca l’armistizio tra Francia e impero asburgico nel tentativo, risultato poi vano, di impedire l’annessione dell’Italia centrale al regno sabaudo. Quanto a Cavour, il difficile scenario che si trovò a dover gestire senza sbilanciare delicatissimi equilibri internazionali era ben lungi da quello pragmaticamente prospettato alla vigilia del conflitto e ancor più complesso diverrà di lì a nove mesi, quando i mille di Garibaldi scalzeranno il regime borbonico in sud Italia. Manovrando con grande abilità e con convinto spirito patriottico tra l’esigenza di non attirare appetiti ed ire delle grandi potenze (cruciale in tal senso la protezione francese sul papato) e i timori per le conseguenze incontrollabili dell’irruenza garibaldina sugli assetti interni ed internazionali, lo statista piemontese riuscì comunque a preservare il fragile organismo nazionale venutosi in qualche modo a costituire portandolo indenne, il 17 marzo del 1861, alla proclamazione dell’unità d’Italia. Di fronte a queste vicende, la tentazione di guardare alla storia come ad una disordinata ed imprevedibile accozzaglia di azioni e reazioni regolate da un’aleatoria casualità è comprensibilmente forte, ma non si deve cederle. In realtà, lungi da qualsiasi agiografia d’occasione, quella che il Risorgimento ci offre ancor oggi, a 150 anni di distanza, è una visione ben più positiva e “progressiva” dalla quale emerge con nitore come l’aspirazione alla libertà sia una forza di fronte alla quale né le aride alchimie della diplomazia né la prepotenza di confini imposti con soldati e gendarmi possono alcunché.E il Risorgimento, non dimentichiamolo, fu prima di tutto e soprattutto aspirazione di un popolo alla libertà di autodeterminarsi; quella libertà che è il presupposto essenziale della democrazia e della giustizia sociale e che dopo essersi finalmente affermata attraverso lunghe lotte, sanguinosi sacrifici e tanti, troppi campi di battaglia, garantisce all’Europa di oggi un futuro di pace e fratellanza.
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150 anni fa, il 24 giugno 1859, l'esercito Franco-Piemontese sconfisse tra Brescia e Mantova le armate austriache