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La mitica pattuaglia aerea del 6° storno, la cui effigge, un drago rosso, resiste nel tempo

La storia dei “Diavoli Rossi”

STORIA DEI DIAVOLI ROSSI dal Giornale di Brescia del 26/27 maggio 2000Alla fine degli anni ’40, la Direzione Demanio di Padova dell’Aeronautica militare portò a termine l’accertamento dello stato di tutte le piste aeronautiche, costruite tra il 1943 ed il 1944 dall’organizzazione tedesca Todt, compresa quella di Ghedi.Nella relazione finale, datata 15 ottobre 1952, sulla base di disegni cartografici dell’aprile 1948, si concludeva che i tratti rioccupati dall’Aeronautica militare: “Erano generalmente m buone condizioni o riattivabili con spesa conveniente”.Un risultato notevole, se si pensa agli sforzi compiuti dagli Alleati per neutralizzare, con decine di attacchi, l’aeroporto di Ghedi. Per l’aviazione tedesca era il più importante dell’Italia settentrionale, per l’Aviazione nazionale repubblicana, uno dei nidi del “Gruppo fantasma”; i “Diavoli Rossi”.Ghedi e la Luftwaffe. Nel corso della Seconda guerra mondiale la verde distesa del campo di Ghedi non ospitò reparti da combattimento della Regia aeronautica, ma fu invece sede della Scuola di pilotaggio di 2° Periodo per il bombardamento terrestre e l’assalto, equipaggiata con trimotori Cant.Z.1007 e bimotori BR.20.Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la nascita della Repubblica Sociale Italiana (Rsi), fu costituita l’Aviazione nazionale repubblicana (Anr), una forza aerea vera e propria, seppur di ridotte dimensioni, dotata di aeroplani e piloti ed organizzata per operare a fianco dell’alleato germanico,.,Nei primi mesi del 1944 in base agli accordi con i tedeschi, i campi d’aviazione destinati all’Anr nell’Italia centro-settentrionale furono 14, fra principali e di appoggio; altri furono occupati dalla Luftwaffe, come appunto quello di Ghedi.La conoscenza da parte alleata dell’ubicazione dei principali aeroporti italiani, impose all’organizzazione tedesca Todt la ristrutturazione di alcuni di essi.Lo scopo della costruzione di piste, raccordi e piazzole di decentramento, protette da paraschegge, era quello di rendere l’aeroporto capace di assorbire in larga misura l’offensiva aerea degli alleati, senza subire pesanti riduzioni di efficienza.In un contesto topografico di pianura, seminativo irriguo, più o meno erborato, senza vigneti frutteti o altre culture intensive specializzate, furono costruiti 65 chilometri di piste, raccordi, strade di decentramento, piazzole, paraschegge per aerei, officine, depositi e bunker.Le due piste di volo di Ghedi e di Montichiari, della lunghezza di 1.950 metri, larghe 60, furono collegato tra loro da quello che ancora oggi presso il 6° Stormo è conosciuto come il raccorda tedesco, costituito da lastroni di calcestruzzo non armato, delle dimensioni di 3x5x0,15 metri.Disseminati in mezzo alla campagna, decine di paraschegge sia in terra sia in calcestruzzo non armato, delle dimensioni di 35x25x4 metri. Si provvide anche a dotare l’aeroporto di difesa contraerea, sistemando diverse mitragliere e complessi quadrinati in punti strategici e idonei ad assicurare la migliore copertura di fuoco possibile.Fu così che Ghedi, insieme con Villafranca, in provincia di Verona, divenne uno dei principali aeroporti della Luftwaffe nell’Italia settentrionale.L’importanza dell’aereoporto n. 12, comandato fino al gennaio del 1945 dal capitano pilota Valerio Fusaro e successivamente dal maggiore Domenico Tosi, non passò inosservata agli Alleati che, tra il 1944 e il 1945, condussero oltre trenta attacchi alla base.I danni prodotti, però, furono contenuti grazie ai lavori realizzati ed agli accorgimenti adottati per sottrarre all’offesa alleata i caccia. Gli aerei erano accuratamente mascherati con frasche, sotto gli alberi nella zona di decentramento, mentre in prossimità delle piste e dei raccordi furono sistemate delle sagome di legno e cartone.Gruppi di avieri tedeschi specializzati in artifizi, sostavano in piccoli bunker di cemento vicino agli aerei civetta. Quando le sagome venivano colpite da proiettili o bombe, appiccavano il fuoco a bidoni pieni di stracci imbevuti di nafta e di grasso, per simulare l’incendio degli obiettivi. Risultò efficace anche un altro espediente, messo in atto dal personale dell’Anr, che, a raccontarlo, sembrerebbe fin troppo ingenuo. Gli aerei da caccia venivano parcheggiati in angoli di aviorimesse distrutte dai bombardamenti, rimanendo così al sicuro da nuovi attacchi.Nel marzo del 1944 la 2a Luftflotte dell’aeronautica germanica, nella sua riorganizzazione territoriale, schierò a Ghedi la 1° squadriglia dello Stormo tedesco L.G.l Stab., con una decina di aerei Junker Ju.88 da bombardamento e assalto.Questi ottimi e versatili bimotori, con altri aerei dello stesso tipo, furono impiegati in azioni di bombardamento nell’Italia meridionale, come quello di Bari del 2 dicembre 1943.Il complesso aeroportuale bresciano fu sfruttato anche da bimotori da ricognizione strategica, caccia pesanti da attacco e ricognizione e, sia pure in modo saltuario, dai bireattori Messerschmitt Me.262, i primi caccia a reazione impiegati m combattimento nel corso della Seconda guerra mondiale.Nello stesso periodo, dopo cinque spostamenti successivi, operò da Ghedi anche un reparto da attacco notturno, il Nachtschlachr-gruppe NSGr.9, dotato, oltre che di una quindicina di biplani Fiat CR.42, anche di Junker Ju.87, il famosissimo bombardiere in picchiata Stuka.La dislocazione, nell’estate del 1944, del Comando Caccia dell’Anr a Custoza, in provincia di Verona, e il termine dell’offensiva estiva alleata, spinsero il comando tedesco della 2° Luftflotte a schierare il 29 giugno 1944 a Ghedi due squadriglie di Me.109G tedeschi. I velivoli del 77″ Stormo da caccia della Luftwaffe, che operavano con quelli del 2° Gruppo dell’Anr basati a Villafranca, erano stati, infatti, suddivisi tra gli aeroporti di Ghedi-Montichiari e Bettola.La presenza di una così consistente aliquota di aerei della Luftwaffe, però, non durò a lungo. Dalla prima decade di agosto e prima della fine del settembre 1944, tutti i velivoli da caccia germanici furono ritirati per le impellenti necessità di fronteggiare l’offensiva aerea alleata sul territorio metropolitano tedesco, salvo due squadriglie da attacco notturno del NSGr.9.Fu così che i piloti da caccia italiani dell’Anr rimasero da soli ad arginare lo strapotere aereo angloamericano.IIa parteLa costituzione del 2° Gruppo risale al mese di novembre del 1943. Il reparto era composto di tre squadriglie, intitolate a quattro valorosi piloti caduti in combattimento: la 1ª “Gigi Caneppele” derivava dalla 363ª Squadriglia del 150° Gruppo autonomo della Regia Aeronautica che fino all’armistizio aveva combattuto in Sicilia; la 2ª “Nicola Magaldi” e la 3ª “Graffer-Bulgarelli”. Quest’ultima, in particolare, fu dotata di aeroplani pagati grazie a sottoscrizioni dei cittadini di Torino e di Bologna, in memoria del capitano Giorgio Graffer e del capitano Loris Bulgarelli, ferrarese di Cento. In un primo momento il reparto ricevette i caccia Fiat G-55 “Centauro”, ma nell’estate del quarto anno di guerra, considerate la produzione e la disponibilità delle macchine, alle squadriglie fu assegnata una cinquantina di caccia Messerschmitt Bf 109G di fabbricazione tedesca. Già il 26 luglio 1944, solo pochi giorni dopo aver ritirato i nuovi aeroplani, 11 Me.109 del gruppo si scagliarono contro una dozzina di P.47 Thunderbolt americani dell’86° squadron che bombardavano un ponte a nord-ovest di Brescia, abbattendone tre. Il Gruppo, che aveva in forza 80 piloti e 522 tra Ufficiali e Sottufficiali, stabilì la sede del comando nella Villa Portalupi a Valeggio sul Mincio, in provincia di Verona. Le sue squadriglie, sia pure in modo discontinuo, per evitare di essere sorprese al suolo dagli alleati, furono dislocate a Villafranca (la 2ª e la 3ª) ed a Ghedi (la 1ª). Nasceva la leggenda di quello che gli alleati soprannominarono il “Ghost group”, ovvero, il “gruppo fantasma”. Nel maggio del 1944 le tre squadriglie assunsero una diversa numerazione e denominazione: la 1ª divenne 4ª, rimanendo però intitolata a Caneppele; la 2ª divenne la 5ª dei “Diavoli Rossi” e la 3ª si trasformò in 6ª “Gamba di Ferro”. Fatto forse più importante è che i “Diavoli Rossi” della 5ª, nel frattempo trasferita a Ghedi, non solo finirono per imporre il nome all’intero 2° Gruppo, ma da allora avrebbero legato la loro storia alla base bresciana. Il comandante di Gruppo fu inizialmente il tenente colonnello Aldo Alessandrini, sostituito dal gennaio 1945 dal neo promosso maggiore Carlo Miani. Comandante nonchè asso dei “Diavoli” della 5ª squadriglia fu il capitano Mario Bellagambi, autore di 12 abbattimenti, l’ultimo dei quali uno Spitfire britannico, precipitato nella campagna di Isola della Scala (Vr) nelle fasi finali della guerra. Poveri “Diavoli”, decollavano da Ghedi e da Villafranca con aerei forniti dai tedeschi, per battersi ad armi pari, ma in netta inferiorità numerica, contro le flotte aeree alleate. Terminato il combattimento, dirigevano all’atterraggio e sparivano sotto i rifugi, protetti e mascherati, sparsi tra gli alberi della bassa. Durante la notte le autobotti a fari spenti raggiungevano l’aeroporto, permettendo ai piloti dei “Gustav”, questo il nome dei Me.109G, di riapparire il giorno seguente e ripetere la beffa. L’attività dei piloti della 1ª squadriglia e successivamente della 5ª che operarono da Ghedi, era volta a proteggere la valle del Po e si inseriva in un complesso sistema di difesa che aveva il cervello a Custoza, nella villa dei conti Pignatti di Morano. Il sistema era composto di una rete di avvistamento degli incursori dei bombardieri anglo-americani, dotata di radar ed aerofoni, di batterie contraeree della Flak germanica e dell’Anr e di reparti da caccia, come appunto quello di stanza a Ghedi. Con il ritiro definitivo degli aerei tedeschi, dal settembre 1944 alla fine della guerra, la responsabilità di contrastare l’avversario nei cieli dell’Italia settentrionale gravò per intero sui reparti dell’Anr. Un compito enorme ed assurdo, data la sproporzione delle forze contrapposte che vedevano ogni giorno gli aviatori italiani impegnati a combattere uno contro 10, quando andava bene; uno contro settanta nei momenti peggiori. I vertici della difesa aerea, tutti concentrati nella casella Pb della carta di operazioni dell’Italia settentrionale erano: Villa Pignatti a Custoza che ospitava lo Jagdführer Ober Italien, ovvero il comando della guida caccia; il centro radioelettrico italio-tedesco, sistemato nella seconda Torricella a Verona ed infine il comando caccia a Valeggio sul Mincio, dove trovò posto anche il comando dei “Diavoli Rossi”. Gli occhi “elettronici” dell’organizzazione erano i radar Freya e Würzburg, i primi della portata di 130 chilometri ed i secondi idonei ad agganciare bersagli fino ad una distanza di 50 chilometri, tutti collegati con i comandi dell’artiglieria contraerea. Ai criteri di “caccia libera”, delle faticose crociere di vigilanza e all’iniziativa del personale di sempre, subentrò per i piloti della squadriglia di Ghedi, la scientificità dell’impiego applicato dalla Luftwaffe in Germania e sconosciuto alla Regia Aeronautica. Il coordinamento unificato tra italiani e tedeschi consentì di sfruttare al meglio le risorse della difesa, in funzione della consistenza e della localizzazione delle formazioni avversarie in avvicinamento. Inoltre, uno speciale codice era stato addottato per il frasario convenzionale. I nominativi radio dei caccia nemici era “rondini”, mentre quello dei bombardieri era “aquile”. “Primula” era il nominativo della 5ª squadriglia e “Petunia”, seguita dal numero, era quello dei “Diavoli Rossi”. Nonostante la sproporzione, però, il “Gruppo fantasma” non tardò a dare serie preoccupazioni all’aviazione alleata. Il ritiro della Luftwaffe dall’Italia fece pensare che gli italiani fossero in grado di non opporre alcuna resistenza. In un tranquillizzante rapporto ufficiale dell’Usaf, si sottolineava che l’impossibilità per il nemico di rimpiazzare gli aerei perduti e l’assenza di sufficienti equipaggiamenti e rifornimenti, escludevano ogni eventuale azione offensiva contro le formazioni di bombardieri alleati, nella loro attività nell’intera valle del Po. Il metro era quello della logistica americana, con il solito profluvio di mezzi e materiali. Dopo il riequipaggiamento del 2 ottobre, verso la metà del mese si ebbero i primi scontri, descritti dai servizi di informazione alleati come azioni condotte da piccole formazioni isolate e non eccessivamente aggressive. Già il mese successivo, però, i rapporti cambiarono tono e i caccia italiani si trasformarono in consistenti ed agguerrite forze di intercettazione, composte di 15, 20 aerei furono adottate opportune adeguate misure protettive, ma questo non riuscì a ridurre le gravi perdite tra i bombardieri anglo-americani. All’intensificazione dell’offensiva aerea alleata, i cacciatori del 2 ° Gruppo risposero con un totale di 114 abbattimenti accreditati, contro la perdita di 42 piloti. Alla fine della guerra, considerati i danni prodotti dai bombardamenti e quelli causati dai tedeschi che in ritirata avevano fatto brillare alcune mine, si poterono contare sulla pista di Ghedi 10 crateri del diametro di 8 metri ed altri 25 già in precedenza riempiti. Raccordi e vie di rullaggio presentavano anch’essi innumerevoli interruzioni. Dovettero passare sei lunghi anni prima che dall’aeroporto potessero decollare di nuovo degli aeroplani, questa volta della ricostituita Aeronautica Militare. Nel 1951, infatti, Ghedi divenne sede del 6° Stormo e, da allora, il silenzio della campagna della Bassa bresciana è stato rotto dai decolli e dagli atterraggi dei jet italiani, certo più veloci e rumorosi, ma che inalberano ancora lo stesso distintivo: un diavolo, rosso e ghignante.Flavio Mucia

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