giovedì, Aprile 25, 2024
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Quando a Salò l’acqua in casa era un miraggio

Gli anziani diventano giornalisti

«Quando ero piccola, non avevo l’acqua in casa – rammenta Rosa -. Andavo a prenderla con i secchi alla fontana. Il bucato lo facevamo al lago, con l’asse di legno che consentiva di lavare e spazzolare bene i panni. Con le amiche ci si insaponava, e si cantava a squarciagola. In estate, di sera, andavamo al lago a lavarci. D’inverno facevamo il bagno in casa, nella tinozza, una volta alla settimana». Molti anziani della casa di riposo di Salò sono diventati… giornalisti. Sollecitati dagli animatori, scrivono infatti sul notiziario «Noi»: un modo per far riaffiorare i ricordi, confrontare il passato con il presente e tenere viva la memoria. Ultimamente hanno trattato il tema dell’acqua. «Durante la mia vita – osserva Margherita – ci sono stati molti cambiamenti nel campo del lavoro, nel modo di abitare e anche su come ci si procura e si consuma l’acqua. Mi viene in mente il pozzo dal quale la prendevamo, e il secchio appeso a una corda, che vi spariva per ricomparire poco dopo, gocciolante. La curiosità spingeva ad affacciarsi di nascosto all’orlo di quel vuoto nero, senza però riuscire a vedere il fondo. Allora io mi ritraevo piena di paura. Fino ai 21 anni fui ospitata in un istituto, a Brescia, per studiare e imparare un lavoro, secondo le attitudini. «L’acqua c’era a metà: quella corrente, in cucina e vicino alle camerate, una specie di bagno con i lavandini per lavarsi il viso, il collo e i piedi. Il resto, niente. Come tutti i bambini, mi adattai facilmente alla situazione. Per nostra fortuna, durante i tre mesi delle vacanze estive, avevamo a disposizione un palazzo dell’Ottocento, a Cisano di San Felice, con una bellissima veduta sul golfo di Salò. Le comodità, come le intendiamo noi adesso, non esistevano. «Ma c’era il lago: una grande, immensa vasca, dove ci tuffavamo tutte, e ci lavavamo. Per l’acqua che serviva in casa bastava un grosso tubo di ferro, con dei fori distanziati, in modo che noi ragazze, appena alzate, a gruppi, ci potevamo lavare. Dopo il collegio ho cambiato almeno sei lavori, e quasi altrettante abitazioni. Non essendo in grado di pagare affitti alti, trovavo sempre stanze con un solo rubinetto in cucina e il gabinetto sul ballatoio, usato anche dagli altri inquilini del piano». «Abitavo a Salò, in via Fantoni – interviene Lucia -. Andavo a prendere l’acqua alla spina comunale. Un bastone di legno, la stasa, permetteva di portare due secchi per volta. Ma che fatica per le mie povere spalle! Non parliamo dei servizi igienici… Che brute robe». Vittorio: «Sono nato novant’anni fa a Campoverde, allora comune, adesso frazione di Salò. Le famiglie vivevano grazie all’acqua del Rio, un ruscello dal letto sassoso, a volte quasi secco, a volte minaccioso. Una volta, nel ’76, è straripato, inondando tutta la zona attorno alla scuola elementare. Il terreno coltivabile è poco esteso. Allora l’acqua del ruscello e del cielo bastava. Le donne prendevano alle spine, col secchio, quella che serviva per la casa. «Per la biancheria si recavano ai lavatoi pubblici. Gli ortolani più ricchi avevano costruito sui loro terreni una vasca quadrata in cemento, di una decina di metri di lato. Uno di loro ha permesso a me (e agli amici) di usarla come piscina. Era profonda, al massimo, un metro e mezzo. E lì ho imparato a nuotare». Ferdinando racconta la sua esperienza nelle miniere in Belgio. Fortunato parla del Chiese, dell’Oglio e dei canali che irrigavano i terreni vicini a casa sua. Eleonora, che ha partecipato a un concorso nazionale («Parole ritrovate: lo scrittore che c’è in te»), ricorda come l’acqua sia «poesia, bellezza della natura, necessità, vita. Ci sorregge e ci guida nel nostro cammino. A volte può essere rovinosa, e l’uomo si dispera. Nei paesi aridi l’arrivo di una cisterna o le perforazione di un pozzo sono fonte di gioia infinita».

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