Puntuale come gli ultimi tedeschi della Traubenkur, si rimette in moto il grande torneo di trisàc, che da qui a dicembre porterà nei bar del Basso Sarca e della valle di Ledro qualcosa come 1024 aspiranti campioni. E’ vero, ci saranno i «ripetenti»: ma dire che almeno 4-500 giocatori si dedicheranno alla contesa è una stima non lontana dalla realtà. «Ma cos’è mai questo trisàc?». Altrettanto puntuale, al telefono della nostra redazione, mi toccherà risentire questa domanda, buttata lì – tra l’ironico e il curioso – da lettori, o da colleghi, trentini (o roveretani, o delle valli), del tutto a digiuno non solo delle regole, ma anche della «filosofia» di questo gioco di carte, che si pratica (e accanitamente) soltanto nell’alto Garda e nella valle di Ledro. Mi toccherà di rispondere, un po’ evasivamente, che pur essendo il sottoscritto il «massimo teorico vivente» del trisàc – patente che mi viene universalmente riconosciuta da quando sono riuscito a condensare in «appena» tre pagine formato tabloid la normativa del gioco – la via più breve per imparare l’arte sarebbe quella di sedersi ad un tavolo ed iniziare… l’apprendistato.Ma non lo faranno mai, i miei simpatici interlocutori non autoctoni. Così come l’òra gardesana soffia gagliarda solo a partire da Malcesine e Limone – per poi sferzare rumorosa le barche negli ormeggi di Riva, i bròccoli di Torbole; e risalire i forti di Nago da una parte, e dall’altra la rupe dei conti d’Arco e i macigni rotolati giù dal Brento fino a Dro, «paese della prugna» (la cui etichetta mi sembra un’altra allegoria delle nostre scelte esistenziali) – così il trisàc appassiona l’esatto identico territorio. E muore oltre: inesorabilmente e senza alcun rimpianto.Perchè? Dev’esserci, oltre che la questione climatica e geografica in senso stretto, anche un aspetto legato al carattere goliardico e scanzonato delle genti della Busa; e all’ amor di rapina (il che spiega la diramazione nel ledrense, che tradizione e semantica, definiscono come «terra di ladri»). Voglia di «defraudare» l’avversario e di prenderlo per i fondelli – massime se di amico si tratta – costituiscono la benzina che fa andare a tutta birra il motore del trisàc. Per cui la sua limitata ma potentissima diffusione (in tutti gli strati sociali: dal bischero all’azzimato frequentatore dei salotti buoni) corrisponde esattamente all’area entro la quale, se vi capita si scendere in frequentatissima piazza e gridare a squarciaola «Ehi, mona!», avrete la mirabolante reazione che tutti – ma proprio tutti – si girano verso di voi per attaccare il discorso, sentendosi chiamati per nome.Sciocchezze? Nossignori. Riva, che è decisamente la capitale della gardesanità e del trisàc, annovera tra le sue istituzioni il cosiddetto «Bar degli stupidi», la cui frequentazione è d’obbligo per sentirsi…in società. Siamo fatti così. Quando i barcozzi erano stracolmi di trote e di sardène – e i commercianti dell’Impero avevano scucito corone sonanti in cambio del pescato – nei fondachi del porto, rinfrancati dalla pagnotta garantita fino all’indomani, i pescatori dai peli inceneriti dal sole e dagli spruzzi dell’onda, tornavano per ore e ore alla beata incoscienza infantile. E si giocavano a trisàc il conto dell’oste, in un crescendo di profonde banalità quotidiane e di facezie: che a un pubblico squisitamente trentino sarebbero sembrate perdita di tempo e ignoranza allo stato cristallino.Analisi sbagliata: perchè i tempi e i ritmi del lago, non sono i tempi e i ritmi delle campagne e dei monti. Qui si passa in pochi attimi dalla tempesta alla quiete. Dalla serietà (galanteria) allo svacco (furfanteria). E i lunghi intermezzi sono un fatuo ridersi o piangersi addosso. Anche oggi – mentre i novelli Asburgo e figli d’Albione lasciano il campo turistico disseminato di milioni e milioni di valuta ripartiti in piccoli e grandi fiumi – il trisàc torna ad essere, nei mesi del freddo, il paradigma della nostra vita.
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Svacco e burla. Veleno e furfanteria. E' così, d'inverno, fin dai tempi dei «barcaroi»
Dove l’òra soffia gagliarda regna il trisàc: gioco e filosofia
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