Quella che i gardesani chiamano “la piazza” in realtà è la viuzza del centro storico che congiunge le antiche porte d’accesso al paese. A metà vicolo c’è un negozio di alimentari, probabilmente l’unica gastronomia al mondo dove ad affettarvi il prosciutto ci troverete non un pizzicagnolo, bensì un ingegnere nucleare. Già, perché Mauro Pasotti, erede della dinastia di “boteghéri” dei Pasotti-Gaóso, dopo la laurea, conseguita a Bologna nel 1981 con una tesi sulla misura delle radiazioni e sulle modalità di protezione dai loro influssi, decise di mettersi dietro al bancone della bottega di famiglia. In questi giorni l’ingegner-salumaio si propone sotto un’altra veste ancora: quella del pittore. È infatti in corso, al palazzetto delle esposizioni, una sua antologica, che raccoglie opere realizzate fra il 1985 e il 2003. La mostra resterà aperta sino al 26 del mese. Mauro Pasotti è un gardesano classe 1956. A Garda ci è nato e ci vive. In paese lo chiamano “Cìvers”. Il soprannome tradisce la passione calcistica: il suo idolo era Martin Chivers, centravanti del Totthenham e della nazionale inglese. Pasotti ha anche fatto l’allenatore delle squadre del paese. Molti ricordano i sui incitamenti in anglo-gardesano agli atleti rossoblù: «Fasî prèsing!». Il pressing era, a suo parere, la sublimazione del calcio. Ma questo appartiene al passato pedestre. Ora c’è l’arte. Approcciata quasi come una branca della filosofia: i quadri trasudano mistica orientale, razionalismo occidentale, pensiero greco, ma anche ricordi di grande scuola pittorica. La stessa intitolazione della mostra, e del catalogo che la correda, esprime complessità: «Da Velazquez ad Eraclito, da las meninas al panta rei». E Las meninas , la celebre tela di Velazquez che ritrae la famiglia del re di Spagna e le damigelle d’onore, è tra gli elementi che tornano quasi ossessivamente nella pittura di Pasotti, che ne offre varie interpretazioni scavando nei particolari, svelandone la struttura, reinventandone le prospettive. Quanto al “panta rei”, il “tutto scorre”, la frase attribuita ad Eraclito, è quasi un simbolo del tentativo dell’ingegnere di Garda di spiegare, come i filosofi presocratici, il principio ultimo della realtà fisica. E lo fa con i curiosi trasferimenti del leone di San Marco su una punta san vigilio distorta prospetticamente in una aereo-pittura quasi dai richiami futuristi, oppure la statua di Cangrande sopra un Castelvecchio dilatato verso l’Adige. Il Monte Luppia si cambia in coccodrillo, lo stormo di gabbiani che vola su villa degli Albertini la tramuta in una composizione cubista. Si scompongono in scatole cinesi le case del porto o in un gioco informatico le vedute del golfo gardesano, che fa anche da sfondo surreale a un’impennata di colonne su cui Pasotti stesso compare, minuscolo, in veste di asceta. Fino a un omaggio al Mantegna in cui il Cristo morto giacente su linee intrecciate rammenta una religione galleggiante quasi sulla filosofia, mentre la scienza la tiene ancorata alla natura. Come se l’anima razionalista e quella umanistica dell’artista-salumaio scorressero di continuo, insieme, sulla tela.
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