lunedì, Aprile 29, 2024
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Di umili origini, ha conquistato molte tavole nobili

La grappa, il latte dei montanari

La grappa, l’acquavite di vinaccia, è un distillato rude e plebeo, ricavato dai resti della vinificazione: le bucce e i graspi dell’uva. Col suo gusto forte o delicato, aromatizzata dalle erbe o dai frutti più diversi, a fine pasto è digestiva, mentre a metà di un pranzo predispone a continuare. Molti le riconoscono proprietà terapeutiche e del resto nel Medio Evo era chiamata aqua vitae, “acqua della vita”. La grappa, prodotto nazional-popolare capace di infondere buonumore per pochi soldi, un tempo era la bevanda dei frequentatori di povere osterie. Figlia della miseria, veniva prodotta dai contadini dopo aver spremuto tutta l’uva raccolta per fare il vino. Stufi di bere la risciacquatura delle vinacce, cominciarono a distillare quei resti della spremitura, ottenendo un risultato di tutto rispetto. Una volta era considerata il latte dei montanari, la benzina dei facchini e il viatico dei carrettieri; ma in realtà la bevevano tutti. Con un “grappino” si combattevano il freddo – anche quello interiore -, la timidezza e le esitazioni, si acquistava vigore fisico. Era considerato un energetico, un disinfettante, un cardiotonico e persino un afrodisiaco. Ma il suo merito principale era quello di lenire la fatica quotidiana della povera gente. Anche se spesso diventava un rifugio dalla disperazione. Un capitano degli alpini usava definire così quel liquore che lo aveva accompagnato in tanti anni di servizio: «La grappa è come il mulo. Non vanta antenati, non ha speranza di posteri e ti scorre dentro a zigzag, proprio come il mulo in montagna. Puoi aggrapparti a lei se sei stanco, fartene scudo se sparano, dormirci sotto se c’è troppo sole. Parlarle se ti risponde, piangere ed essere consolato. E se proprio hai deciso di morire, ti sorride». Col suo carattere forte e rustico, la grappa sembrava condannata a rimanere esclusa per sempre dai salotti della buona società. Ma non è stato così: oggi si producono grappe sublimi, che non hanno nulla da invidiare ad altri distillati di pregio. «Distillare buona grappa è semplice: bastano vinacce fresche e cento anni di esperienza», mi dice Jacopo Poli, che si fa chiamare “mastro grappaiolo”. La sua azienda artigianale è stata fondata più di un secolo fa vicino a Bassano del Grappa, una delle zone più rinomate per la distillazione delle vinacce, dove ha ancora sede, sul famoso ponte coperto, la distilleria fondata da Bortolo Nardini nel 1770. «Siamo una specie in via di estinzione noi grappaioli», commenta Poli, non a torto: all’inizio del Novecento in Italia c’erano 200.000 distillerie, oggi ne sono rimaste solo un centinaio. Quelli che resistono sono i distillatori che hanno fatto della qualità della loro grappa quasi una missione. Le origini della grappa non sono facilmente databili. Sembra che sia nata nei monasteri intorno al 1000, ma più antichi documenti della Scuola Salernitana la citano già come rimedio medicinale. Qualche storico sostiene che essa risalga addirittura al 511 e che sia arrivata in Friuli col re dei Burgundi, Gundobaldo. Di certo si sa che nel XIV secolo la sua produzione era diffusa soprattutto nell’Italia settentrionale e nei Paesi confinanti di lingua tedesca. Il suo nome sembra derivi da “grappo”, ossia il graspo (o raspo) dell’uva, o dal tedesco krappa, che significa uncino. Oggi quasi tutte le vinacce vengono distillate, ma le grappe più apprezzate sono quelle ottenute da monovitigni come ribolla, schiopettino, fragolino, verduzzo, pignolo, taceneghe e il pregiatissimo piccolit. Il procedimento in teoria è semplice. Un generatore di calore riempie le caldaiette dell’alambicco e scalda le vinacce, ricavate da una soffice spremitura e scelte attentamente in base alla loro qualità. Dopo circa tre ore di ebollizione, tutto l’umore alcolico delle vinacce è evaporato. Il vapore viene raccolto mediante un primo passaggio di distillazione, mentre vinacce fresche sostituiscono quelle ormai esaurite e una nuova “cotta” dà l’avvio a una seconda distillazione. Il distillato ottenuto in questo modo e chiamato alcool grezzo o flemma viene invecchiato in fusti di rovere, frassino, ciliegio o castagno, dove esso si affina, facendosi più morbido e assorbendo gli umori del legno. Sei mesi di affinamento e altrettanti di invecchiamento sono sufficienti per ottenere una buona grappa. Ma ci sono anche grappe di riserva, invecchiate due o tre anni in botti di rovere. Dai tempi in cui le grappe caserecce erano vendute di contrabbando e il grappino era sinonimo di montanari dalle guance rubizze e i calzoni rattoppati, molte cose sono cambiate. E se ormai questo distillato è servito con tutti gli onori sulle tavole più raffinate, lo dobbiamo soprattutto a una donna che negli anni Sessanta diede inizio a una vera rivoluzione. Si tratta di Gianola Nonino, soprannominata da Gianni Brera «Nostra signora delle grappe». È la proprietaria della famosa distilleria Nonino di Ronchi di Percoto (Udine), dove qualcuno si ricorda ancora di Orazio, il capostipite della dinastia, che andava in giro per la provincia con un barroccio con sopra un alambicco, per distillare di casa in casa. Fu Gianola Nonino a nobilitare la grappa, distillandone una qualità pregiata da un monovitigno e non partendo da una vinaccia, ma dalla pregiatissima uva di piccolit. Alla signora va il merito di avere per così dire reinventato la grappa, trasformandola da liquore povero a status symbol. Mario Bussoni

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