Una storia longobarda

Come Cunigondo di Sirmione ebbe salva la vita

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Di Redazione
Mario Arduino

Non si conosce con esat­tez­za la data d’ingresso in Italia dei Lon­go­b­ar­di. Pao­lo Dia­cono anno­ta il giorno di parten­za dal­la Pan­non­ia, fis­san­do­lo al 2 aprile 568.

Se vali­carono le Alpi in quell’anno, furono prob­a­bil­mente chia­mati da Narsete in qual­ità di federati dei Bizan­ti­ni; se arrivarono l’anno seguente — come altre fonti sosten­gono — van­no con­siderati dei con­quis­ta­tori.

Ne scrive Fran­ca Sinat­ti D’Amico in un pregev­ole libret­to edi­to nel 1972 dai bres­ciani Fratel­li Gerol­di ed inti­to­la­to “Ven­ti date da ricor­dare per la sto­ria del Medio­e­vo ital­iano”.

Era­no trascor­si qua­si due sec­oli dal­la cala­ta lon­go­b­ar­da ed anda­va approssi­man­dosi l’era car­olin­gia, allorché si ver­i­ficò un even­to di cui trat­ta il con­te Gio­van­ni Giro­lamo Orti Man­ara nel vol­ume “La peniso­la di Sirmione sul lago di Gar­da”, pub­bli­ca­to a Verona nel 1856 per i tipi di Giuseppe Antonel­li.

L’opera, tut­to­ra fon­da­men­tale per la conoscen­za del­la “venus­ta Sirmio”, è ded­i­ca­ta “alla sacra reale maestà di Fed­eri­co Gugliel­mo IV°, re di Prus­sia, ecc. ecc.”. Vi si tro­va un “Codicet­to diplo­mati­co” ove sono rac­colti Ses­san­tot­to atti che, trà il 4 otto­bre 760 ed il 6 otto­bre 1744, det­tano norme cogen­ti per gli abi­ta­tori del paese caro a Cat­ul­lo. Il sec­on­do ed il ter­zo di tali doc­u­men­ti si riferiscono ad una san­guinosa vicen­da.

Accadde che nel 765, rispet­ti­va­mente otta­vo e ses­to anno di reg­no di Deside­rio e del figlio Adelchi, su istigazione del diavo­lo (“dia­bo­lo suadente”), Cuni­mon­do, figlio del defun­to Cuni­mon­do da Sirmione, com­mise scan­da­lo nel palaz­zo reale, ucci­den­do Maniper­to, gasin­do, cioé nobile cor­ti­giano, del­la regi­na Ansa. Per ordine dei re l’omicida venne cat­tura­to e mes­so in catene (“fec­imus eum com­pre­hen­dere et in vin­culis mit­tere”).

Sec­on­do la trentes­i­mases­ta dis­po­sizione dell’editto di Rotari, emana­to nel 643, per il reo era­no pre­viste la pena cap­i­tale e la con­fis­ca di tut­ti i beni mobili ed immo­bili. tut­tavia, men­tre in effet­ti questi furono asseg­nati al monas­tero bres­ciano di San Sal­va­tore, per inter­ces­sione del­la pietosa sovrana, Cuni­mon­do fu grazi­a­to e dichiara­to usufrut­tuario dei citati possed­i­men­ti, per­ché non trascor­resse in mis­e­ria il resto del­la vita (“ne cum neceesi­tate vitam suam finiret”).

Inoltre Ansa ‑si legge a pag­i­na 90- “non fu paga di quel per­dono, e tan­to s’adoperò da ottenere da Cuni­mon­do che donar potesse a qualche basil­i­ca sermio­nense, a reden­zione dell’anima sua, parec­chie terre delle già con­fis­cate”.

Sic­ché, il 13 giug­no di quel­lo stes­so 765, il ric­co lon­go­b­ar­do prov­vide alla ces­sione di sue pro­pri­età alle chiese di San Mar­ti­no in Cas­tro, San Vito e San Pietro in Mav­inas, dispo­nen­do altresì che tut­ti i servi­tori del­la casa fos­sero liberati, dopo la scom­parsa sua e del­la moglie Con­tru­da, e liberi per sem­pre rimanessero (“post nos­trum ambo­rum digres­sum sint liberi et abso­lu­ti per­maneant”). La vicen­da induce a con­sid­er­are che quell’antico popo­lo, ritenu­to “bar­baro” per sec­oli dai nos­tri stori­ci, sape­va dar pro­va di clemen­za e di rispet­to del­la vita umana. Il che non sem­bra pot­er­si dire di molte nazioni odierne.

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