– Ci sono stati tempi in cui la sardella – o meglio, la sardéna, come si dice in riva al lago – era considerata il «pesce provvidenza». La definiva così, negli anni Venti, Floreste Malfer, ittiologo, figlio di pescatori (a Garda gli hanno dedicato le scuole elementari). Voleva dire che molte delle famiglie della Garda d’allora riuscivano a sbarcare il lunario quasi solo grazie alle grandi, memorabili, per certi versi epiche battute di pesca alla sardella. Eventi che coinvolgevano l’intero paese. Guai a restarne esclusi: era questione di vita o di morte. Ha bene espresso il fervore del giorno della «grande pesca» un altro gardesano, Pino Crescini (a lui hanno intitolato la biblioteca). «La temperatura del paese», ha scritto, «cresce e dà nella febbre solo quando s’annunciano le sardelle. È uno scatto che fa paura. Una buriana che sbrega la quiete dei vicoli. Osterie e case si svuotano, uomini corrono. Chi ai fònteghi spalancati a estrarre la rete dai cassoni, chi a cercar carretti su cui caricarla, chi a spingere in acqua le gondole piane. Un carro è già carico, frana verso il porto trabalzando sulle selci in un rumore d’inferno. Su di un altro la frenesia porta confusione: un intoppo e il mucchio della rete, dopo un breve ondeggiare si rovescia fra le ruote». In pochi attimi il paese entrava in fibrillazione. Le donne per le vie urlavano ai loro mariti: «Dai, mòvete, te rèste fòra!». E quelli volavano dalla porta con gli zoccoli in mano, perché nei barchetti non c’era posto per tutti. «E infatti, sul molo», proseguiva Crescini, «mischie e risse fra disperati, perché il posto e il pane sono dei primi che saltano in barca. Per chi resta a terra, fame, ma più rabbiosa e digrignante. E guardare col cuore strangosciato chi se ne va». Descrizione terribile e splendida di anni neppure tanto lontani. Ovvio che delle sardéne nulla andasse buttato. Come il pane, che quando cadeva lo si raccoglieva con venerazione e lo si baciava, quasi ad esorcizzare l’affronto alla sua sacralità. Così dalla cucina dell’economia nascevano piatti deliziosi, come quello delle sardéne òio, parsémol e àï, che purtroppo pochi ancora fanno in riva a un Garda divenuto ricco. La ricetta è semplicissima. Dopo aver cotto le sardelle ai ferri ed averle mangiate di gusto, quelle che restano vanno sfilettate e «riciclate» condendole con abbondante olio extravergine d’oliva e un generoso trito d’aglio e di prezzemolo. In questo modo i filetti possono essere conservati anche un paio di giorni. Anzi, lasciandoli nella bagna un bel po’ s’insaporiscono meglio. Certo, verranno un po’ rustici, con tutto quell’aglio che impregna le carni del pesce. Ma sono un’autentica ghiottoneria per chi non si pone problemi di fiato grosso e di relazioni sociali. Osserva Bepo Maffioli, uno dei massimi scrittori di cucina veneta, che «il prezzemolo, l’aglio, tritati insieme, e l’olio d’oliva» sono in fondo «la salsa elementare di tutto quanto viene arrostito alla graticola, e particolarmente il pesce». Alla regola generale della cucina delle genti venete non sfugge neppure la tradizione gardesana.
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La cucina del Garda. La ricetta popolare degli anni Venti riciclava gli scarti della cottura ai ferri