martedì, Maggio 7, 2024
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Nuovo filosofo a Garda in casa Crescini: Elisa studia i reati del Settecento

Liti nelle osterie e rapine in strada

Quella dei Crescini è una famiglia di filosofi. Da semnpre. Con laurea e senza. Il primo fu Agostino, pescatore. Mentre tutti andavano a perder tempo e quattrini all’osteria, lui sedeva sul molo a guardare il “suo” lago e a meditare. La mattina, quando si alzava, si abbracciava dicendo: «Te ringràsio Signor che te n’è regalà n’antra zornà». Suo figlio Angelo trasformò in mestiere la naturale predisposizione familiare: laureatosi all’Università Cattolica di Milano nel 1954, ha insegnato filosofia teoretica a Roma e filosofia della scienza all’Università di Trieste. Il nipote Pino la laurea in lettere e filosofia l’ha conseguita a Padova nel ’64: scomparso nel 1990, ha lasciato ai gardesani libri straordinari (splendido il suo “Vocabolario dei pescatori di Garda”) e in paese gli hanno intitolato la biblioteca comunale. Ora ecco che in famiglia è arrivata una terza laurea in filosofia: l’ha conseguita all’Università di Verona, col massimo dei voti e la lode, Elisa Crescini, sulle orme dello zio Pino e del prozio Angelo. E ne arriverà molto probabilmente una quarta: anche Leonardo, cugino di Elisa, sta studiando filosofia. Elisa Crescini laurea e lode li ha meritati con una tesi storica a carattere gardesano: «La Magnifica Patria di Riviera durante il dominio veneto. Criminalità e giustizia agli inizi del Settecento». Per chiunque s’occupi di storia benacense, riferimento d’obbligo è Bongianni Grattarolo, scrittore salodiano del Cinquecento. Elisa Crescini ha preso le mosse proprio dalla “Historia della Riviera di Salò”, nella quale il Grattarolo descrive i gardesani come gente d’ingegno, sagace, cattolica, abile nel commercio, ma anche litigiosa. Tant’è che «è come in proverbio che tutti portino sempre gli Statuti alla cintola»: come se oggi si viaggiasse col Codice civile in tasca. Del resto, come osserva la giovane neofilosofa, «per riuscire ad aggirare le severissime leggi di Venezia e della Riviera era necessario conoscerle bene». Per di più, «le singole comunità della Riviera sollecitavano questa sorta d’indottrinamento obbligando una volta all’anno il notaio a leggere e spiegare gli statuti all’assemblea dei capifamiglia». Alla criminalità si tentava di porre freno con pesanti sanzioni. Le pene più frequenti erano il bando, il carcere, il servizio forzato ai remi delle galere, che potevano però essere convertiti in pena pecuniaria. Nei casi più gravi scattavano l’impiccagione o la decapitazione. Le misure delle punizioni comminate sono documentate nelle “raspe delle condanne”, libri da conservarsi “in perpetuo” che raccoglievano le sentenze pronunciate dal tribunale della Riviera di Salò. Elisa Crescini ha studiato una serie di “raspe” salodiane del Settecento. «Le scene più frequenti dei reati – scrive nella sua tesi – erano le osterie, le vie cittadine, le pubbliche piazze e le strade che collegavano paesi vicini tra loro, dove si compivano agguati, aggressioni, rapine e dove si svolgevano liti e risse tra bande». Spesso la lite finiva nel sangue: molti portavano con sé armi. Ad esempio il 21 settembre 1700 Gio Batta Macer di Limone uccise a colpi di coltello Gio Batta Tosetti dopo un diverbio in osteria. Un furioso litigio, che lasciò per terra un morto e un ferito, scoppiò nel febbraio del 1705 quando alcuni uomini di Maderno pretesero d’entrare a una festa privata nella casa di un tal Domenico Faustini. Dalle settecentesche “raspe” del tribunale della Magnifica patria emergono anche inganni e storie d’alcova, episodi che sembrano tratti da vecchi romanzi popolari. Prendiamo la vicenda di Alberto Pase e della sua tresca con le sorelle Vesina. Il bell’Alberto abitava a Tremosine, sui monti bresciani del Garda. Messi gli occhi su due sorelle della vicina Vesio, Faustina e Maria, pensò che tanta grazia non gli doveva sfuggire e di tutt’e due «coltivò contemporaneamente l’amore», facendo all’una e all’altra promessa di matrimonio. Quando volle prender moglie, scelse Maria. Ma nel frattempo aveva pure colto il “fior verginale” di Faustina e ebbe timore d’averla ingravidata. La condusse dunque fuori paese e le inferse dieci coltellate. Quando la giovane stramazzò al suolo, l’abbandonò in un fosso. Ma la ragazza non era morta. Sanguinante, riuscì a trascinarsi in strada. La raccolsero alcuni passanti. Si riprese, e lo denunciò. Lui fuggì. Fu condannato al bando perpetuo dalla Riviera. Se l’avessero preso sarebbe finito impiccato. Non sempre i processi d’età veneziana c’entravano comunque con fatti di sangue. Un certo Faustino Fusina si rivolse ad esempio ai giudici perché durante un suo viaggio a Venezia la moglie Caterina l’aveva tradito con Giacomo Testa, restandone incinta. Gli amanti fuggirono. Processati in contumacia, furono condannati al carcere o al bando. Sulle loro teste c’era una taglia. L’infedeltà era reato grave. Oggi i tempi sembrano cambiati. C’è di che filosofeggiarne.

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