sabato, Aprile 27, 2024
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Andrea, l’ultimo in vita, è del 1919, ha combattuto in Africa, poi con gli angloamericani dopo l’8 settembre. Luigi in Africa, Giovanni e Guerrino reduci del fronte russo, Felice e Giuseppe in Francia, Avelino congedato perchè diventato capofamiglia, Ange

Una storia di Rivoltella

di I sette fratelli Cervi furono fucilati dai nazisti nel dicembre 1943. Gli otto fratelli Tellaroli di Rivoltella, Avelino, Luigi, Andrea, Giovanni, Guerrino, Giuseppe, Felice, Angelo vestirono uno dopo l’altro in rapida successione la divisa dell’Esercito per soddisfare i sogni di gloria del Duce e dell’Impero. Tornarono tutti sani e salvi, ad eccezione del povero Angelo, ucciso da una nefrite nel 1930, ad appena 22 anni. La storia dei fratelli Tellaroli rimanda la memoria al film «Salvate il soldato Ryan», con la differenza che nel racconto dei fratelli desenzanesi nessuno fa nulla per salvarli. Solo la buona stella e forse le preghiere del padre Pietro morto nel 1940 stroncato da un infarto li hanno salvati. «Siamo partiti tutti, senza possibilità di far altro, all’esercito servivano uomini per la guerra, a casa sono rimasti solo i genitori e le nostre sorelle» racconta Andrea, l’unico dei fratelli Tellaroli rimasto in vita, gli altri se ne sono andati nel corso degli anni, chi minato dalla malattia, chi di vecchiaia. Andrea vive ora con Jole, l’unica figlia avuta dal matrimonio con Bruna Loda che gli siede accanto: pochi giorni fa, il 12 gennaio, hanno celebrato i sessant’anni di vita in comune. Andrea è alto, la schiena ricurva e il passo sorretto da un bastone: forte e aggrappato alla vita con quella tenacia che appartiene solo alle persone provate da una esistenza votata alla fatica e che ad appena 26 anni avevano già conosciuto ciò che di più orribile non esiste, la guerra. «Lo sa quanti anni ha dato la mia famiglia alla guerra? Ben 56» fa la somma Andrea, quasi volesse presentare il conto a qualcuno. Andrea Tellaroli, che in paese tutti conoscono con il soprannome di «Nano» ha 86 anni, ne aveva 21 quando è partito. Direzione la Francia, ma l’occupazione dell’alleato dirottò altrove i reparti italiani. «E così mi sono trovato in Africa, in Libia, otto mesi, con la divisione Ariete. Sei volte abbiamo preso Tobruk, sei volte l’abbiamo persa. La mia divisione contava 6mila uomini, ne sono tornati 800». Rivide la famiglia per la prima volta dall’arruolamento nella primavera del ’42: «Sono tornato a casa in treno, il viadotto di Desenzano era stato colpito dai bombardamenti, sono sceso vicino a casa, quando mi sono presentato mia madre non mi ha riconosciuto, credeva fossi un vecchio che faceva la carità». L’8 settembre 1843 l’armistizio sorprende Andrea a Sud. Disarmato dagli alleati, finisce a lavorare al porto di Bari, a scaricare le navi. Tanta fatica, poco cibo («Qualche patata, rape e una brodaglia da bere)». Poi la scelta di combattere, a fianco dell’8ª e 5ª armata degli angloamericani. A Lecce l’inquadramento e la consegna delle armi. Andrea entra a far parte di quei 500mila uomini del Regio esercito che scelgono di combattere il nazi-fascismo. «Eravamo in tantissimi del nord, ci dissero che saremmo tornati a casa, che la guerra sarebbe finita presto». Da casa intanto non arrivano notizie. Avelino, il fratello maggiore, congedato solo perché divenuto capofamiglia dopo la morte del padre Pietro, manda avanti il lavoro nei campi. Il dolore per la perdita di un fratello l’aveva già provato. Nel 1930 era deceduto Angelo, appena arruolato, ucciso da una nefrite ad appena 22 anni. «Ma non gli è stato riconosciuto il decesso in servizio – protesta Andrea – perché l’Esercito ha sostenuto che la malattia era stata contratta a casa». E cosa ancor più triste non ha potuto essere sepolto a Rivoltella. «Le autorità militari ci chiesero 6mila lire dell’epoca per riportare a casa la salma. Una cifra che non avremmo raccolto nemmeno vendendo tutto quello di cui disponevamo». Angelo venne così sepolto in un paesino in provincia di Bolzano. «Soltanto a guerra finita – ricorda Andrea – ho cercato di portare la mamma a pregare sulla tomba di Angelo. Ma il conflitto aveva cancellato il cimitero e così non sappiamo nemmeno dove siano i suoi resti». Un altro fratello, Luigi combatte in Africa e poi nelle retrovie italiane; Giuseppe e Felice sul fronte occidentale, in Francia, poi catturati; Giovanni e Guerrino, alpini del leggendario battaglione Vestone (quello del «Sergentmagiù, ghè rivarem a baita?» raccontato nello struggente «Il sergente nella neve» di Rigoni Stern) toccano con mano la disperazione della ritirata di Russia. Sul Don, nel Vestone, c’era anche un cugino di Andrea, Luigi Tellaroli di Lonato, medaglia d’argento al valor militare a Nikolajewka, morto il 22 luglio 1999. Andrea intanto con gli angoloamericani risale la penisola, la fine della guerra lo trova a Faenza. Sul passo della Futa, tra Toscana ed Emilia, tempo prima aveva incontrato un amico al quale si era rivolto per far avvisare la famiglia che era vivo. Nella primavera del ’45 manda a quel paese un ufficiale e raggiunge casa. «Ero a Verona, il tenente non voleva lasciarmi andare. Gli dissi che non sapevo nulla della famiglia, che i miei fratelli erano tutti in guerra. A Desenzano faccio però avvertire mia madre che stavo arrivando, non volevo presentarmi davanti a lei così all’improvviso, temevo per l’emozione». Il congedo giunge nel settembre 1945, a Vipiteno. «Il maggiore del reparto ha tenuto nascosto il congedo per 15 giorni, ero l’unico autista e gli servivo. Poi cercò di convincermi a restare in divisa. ’Vedrai che tra quindici giorni ti sarai pentito di questa scelta’. Ma io non volevo più saperne della divisa, cinque anni di guerra erano stati abbastanza». Privazioni, fatiche, dolore, sono curate giorno dopo giorno dalla gioia di ritrovarsi con i propri cari. Uno ad uno tornano a casa tutti i fratelli, il 1946 è l’anno dei matrimoni, lui con la Bruna, la figlia del Gin Gin che gestiva una trattoria che esiste ancora. La cascina Brognoli in cui vivono i Tellaroli è un piccolo villaggio: ci stanno in trentadue tra mariti, mogli e figli. Della guerra sopravvivono amicizie intense come quelle con i cremonesi Franco Giubertoni e Battista Mandrini: «Abbiamo continuato a vederci; io andavo spesso da loro e loro venivano a trovarmi, ora sono morti, sono rimasto solo». Da civile Andrea Tellaroli ha lavorato ancora qualche anno nei campi, facendo po il manovale e il muratore. La guerra gli ha tormentato a lungo il sonno con incubi e visioni: «Mi svegliavo in piena notte, sognavo la guerra, rivivevo le battaglie, vedevo la morte, sentivo le grida di dolore dei miei amici».

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